Nel primo pomeriggio di un giorno d’estate il vecchio filosofo dormiva all’ombra di un fico. Dormiva e i vicini per rispetto avevano vuotato la piccola piazza. Il capo del vecchio era chino sulla veste vermiglia stretta alla vita dalla cintura d’oro, le mani cariche di anelli pendevano inerti, i piedi nei calzari borchiati di bronzo erano scomposti.
Il silenzio meridiano fu rotto da un piccolo carro tirato da un ciuco che passò a poche braccia dal fico, guidato da un uomo nero inebetito dal sole. Il vecchio si ridestò.
Allora lui che aveva tanto viaggiato e s’era detto immortale si accorse di non ricordare più nulla, ma anche di questo si accorse confusamente, come in un sogno dimenticato.
“Dove vai?” chiese all’uomo.
“Alla costa, zio”
In cambio di un anello si fece condurre.
Il vecchio sedeva volgendo le spalle al carrettiere, guardando i calzari borchiati di bronzo e l’orlo della veste vermiglia, la testa sempre più china. Fino a quando si addormentò. Per fortuna il carro avanzava senza scosse sulla strada polverosa e ormai piana. Quando il ciuco si fermò per orinare l’uomo si volse.
“Pazzo”
Ma si ricordò dell’anello che gli aveva donato e scese a legare il dormiente alla fiancata del carro con una cinghia di cuoio. Il vecchio non si accorse di nulla, non cambiò posizione, solo il suono del suo respiro cambiò. Quando giunsero al mare il sole era basso sull’orizzonte.
“Arrivati” disse l’uomo.
Il vecchio si era svegliato, ma non alzò il capo, non capì.
“La costa, zio!”
“Ah, sì” e gli porse un anello.
L’altro lo prese con sgarbo. Poi, mentre il carro, il ciuco e l’uomo continuavano il loro viaggio, il vecchio sedette davanti al mare, su una duna di sabbia sottile e rovente. Il sole calava e la cintura diventava sempre più rossa, fino a che tutto: la cintura, la veste, gli anelli, i calzari, il cielo, il mare e la sabbia; tutto fu dello stesso colore.
Le stelle videro il mondo e il vecchio era ancora seduto sulla tiepida sabbia. Un capraro ricciuto dagli occhi obliqui lucenti passò col suo gregge.
“Zio, che fai qui di notte?”
“Ho sete”
“Stenditi un poco sul fianco”
E spremette fra le labbra crepate la mammella di una capra odorosa.
Poi il vecchio fu solo, a guardare le stelle che vedevano il mondo, a sentire il fruscio delle onde, sdraiato sul fianco nella sabbia che piano piano freddava, senza far caso alla brezza, senza ricordare più nulla.
“Sveglia, zio”
Un uomo con la barba striata di bianco lo scuoteva. La luce del sole feriva gli occhi del vecchio. Poi qualcosa oscurò il sole e parlò, con la voce di un fanciullo.
“Quella cintura è d’oro”
“Ho visto”
Il vecchio sentì la propria voce parlare.
“Chi siete?”
“Pirati”
“Vengo con voi. In cambio di questa” e si slacciò la cintura.
“Zio, quella cintura è già nostra” disse il fanciullo ridendo.
“Rispetto, per la sua età” lo riprese l’altro con tono severo, poi, volgendosi al vecchio “Saresti d’impaccio”
“Un po’ d’acqua e di pane”
“Va bene”
Andarono alla riva, dove la ciurma caricava grossi barili su una nave piccola e snella.
“Sarà d’impaccio” disse piano il fanciullo.
“Sta morendo” mormorò l’altro.
“Cosa guarda?”
“Nulla”
Il vecchio stava alla poppa, i radi capelli scomposti dal vento, lo sguardo basso sul mare. Fissava le onde del mare e i gabbiani posati sull’acqua. Mangiava e beveva se qualcuno si ricordava di lui. Poco, perché i vecchi sono frugali.
“Zio, che fanno i gabbiani?”
Sorrideva, e la ciurma provava un affetto per il vecchio, come quello che si prova per un cane vecchio e malato, o per un capretto, quando gli si dicono parole gentili palpandogli il collo per cercare l’arteria. Al fanciullo sarebbero andati i calzari.
La nave, un po’ costeggiava, un po’ si avventurava nell’alto mare, seguendo il sole e le stelle. Fino a quando furono a due giorni da casa.
“Zio, stiamo arrivando”
“Dove?”
“A casa”
“Bene” disse il vecchio fissando le onde.
“Zio, perché la tua veste è vermiglia?”
“Perché…” non ricordava più nulla.
“Zio, qual è il tuo nome?”
“Il mio…”
Più nulla.
C’era un’isola vicina alla città dei pirati, ad un giorno di vela, uno scoglio sabbioso con pochi ciuffi di oleandri e di palme nane. Arrivarono là in un pomeriggio di sole.
“Ricorda, io voglio i calzari”
“Lo lasceremo sull’isola. Su una spiaggia lo abbiamo trovato, su una spiaggia lo lasceremo. Noi ci guadagniamo e lui non ci perde”
Il fanciullo dovette aiutare il vecchio, che non poteva, che non capiva.
“Mi pagherai coi calzari, zio” disse portandolo a spalla.
Scese tutta la ciurma, ormeggiata la nave. A far niente, ma non si può non scendere a terra dopo tanti giorni di mare. Era sera.
“Partiamo?” chiese il fanciullo.
“Domani. Meglio arrivare la sera. L’aria è più dolce e si può cenare insieme agli amici”
Davanti al fuoco il vecchio dormì, coperto da una vecchia coperta.
“Dov’è?” chiese il fanciullo.
“È là”
Nella luce del primo mattino il vecchio passeggiava sulla riva del mare, con la veste pendente ed il capo chino. L’uomo andò per parlargli.
“Zio, cosa fai?”
“Guarda”
Nella mano teneva sei sassolini lucenti: uno verde, uno azzurro, due rossi, uno nero e uno violetto.
“Sei tornato bambino, zio. Getta i sassi e vieni con noi”
“Non posso”
“Fra poco quei sassi saranno sassi e noi saremo partiti. Getta i sassi a vieni con noi”
“Non posso”
“Tienili, allora, ma vieni”
“Non posso”
“Che succede?” chiese il fanciullo accorrendo.
“Non vuole venire”
“E i miei calzari?”
“Te ne comprerò io di più belli”
“Con le borchie di bronzo?”
“Con le borchie di bronzo”
“Zio, partiamo!”
“Non posso”
“In malora!”
Mentre la nave spariva all’orizzonte il vecchio passeggiava sulla riva del mare. Si fermò davanti a un minimo incavo sulla sabbia bagnata. Scelse un sasso, il violetto, e lo mise al suo posto. Mise a posto i sei sassi. E sedette.
Sedeva, il vecchio Empedocle, e aspettava.
MI ricordo che è un Libretto del Monacello, numero 6 (Pisa, Edizioni Bandusia, 2009).
m. f.