SUONARE PER CHARLIE PARKER di Daniele Luti

Siamo di fronte a un romanzo che trasfigura in senso poetico la biografia di Dean Benedetti, figlio di emigranti toscani, musicista appassionato che, a un certo punto, incontra Charlie Parker e la sua vita cambia per sempre. È un isolato rispetto agli eventi e alla storia del suo paese, gli Stati Uniti che è costretto a lasciare, ormai malato e privo di speranze, in modo da sottrarsi a un definitivo arresto per uso di stupefacenti. Quello di Dean Benedetti potremmo definirlo un nostos (un ritorno che è soltanto un’andata, essendo lui nato negli USA e non conoscendo fino ad allora l’Italia), cioè un doloroso approdo a Torre del Lago, da dove i suoi erano partiti molti anni prima. Il suo esodo è necessariamente traumatico. Non solo per il passaggio dalla dimensione urbana delle grandi città americane, a uno sperduto paesino in Versilia, noto solo per essere stato il rifugio di Giacomo Puccini, e per l’arretratezza e il conservatorismo culturale e musicale dell’Italia. Dal “melting pot” americano, dalla cultura delle mille voci, dal jazz privo di inibizioni, liberatorio, capace di coniugare raffinatezza europea e fantasia dolorosa, integrazione tra corpo e mente, quindi, alla rigida e arretrata società italiana dove cultura e popolo vivono rigorosamente in mondi separati e dove, in musica, il melodico (voci tremule, sempre accorate, vibranti che narrano una disperata malinconica imbelle prigionia parrocchiale)  domina incontrastato. Siamo a metà Novecento. Questa è l’estrema sintesi della storia.

Ma chi è davvero Dean Benedetti? L’apostolo di Charlie Parker? Un anacoreta, un eroe solitario in lotta contro il mondo e contro se stesso, uno storico della genialità altrui? Tutto questo naturalmente e molto di più.

C’è qualcosa nel suo “vibridante ripensare” che ricorda la malinconia di un personaggio stevensoniano, di un Long John Silver, di un Billy Bones schiavo dei ricordi mentre passeggia solitario nei pressi spazzati dal vento della locanda dell’ammiraglio Bembow con in mente Flint e i suoi compagni di ventura. Ecco, proprio come Dean (il “bandolero stanco” che si muove nella pineta versiliese) che si trascina verso il bar del paese sempre con la mente rivolta agli “a solo”, alle intuizioni, alle note inarrivabili, al fraseggio musicale dell’immenso Bird.

Sì, perché la storia di Benedetti è anche una storia d’amore. Totale e perduto. Lui vive di musica, sogna di diventare un grande sassofonista, vorrebbe essere nero fino al punto di tingere con quel colore il suo strumento musicale. Non ha altri interessi se non quello della musica, tanto da non accorgersi quasi della guerra che sta sconvolgendo il mondo, una guerra di cui lui conta soltanto due amici morti e in cui invece si combatte e si muore ovunque, in ogni continente. Poi il tradimento, la rivelazione, la presa di coscienza. Dean Benedetti, col suo sassofono, non potrà mai dire niente di nuovo, non ha il genio che avrebbe voluto possedere. È qui che decide di prendere un’altra strada: registrare il suo idolo, conservare le intuizioni, la fantasia, l’immaginazione di Parker. Deve farlo per se stesso, per gli altri, per il mondo, per la musica, per tutte le persone della cui malinconia esistenziale, aspirazioni, voglia di sublime, il jazz (così come lo concepisce Bird) è espressione. Siamo di fronte a una sindrome rovesciata di Salieri, un gesto di una grandezza profonda e sofferta: il mediocre musicista di fronte al genio si adopera per tirarne fuori ancor maggiormente le qualità. Questi i tratti della storia, del romanzo. Compreso il fatto che il narratore compensa la scelta claustrale del suo protagonista interpretando i due mondi in cui si muove la storia, le grandi metropoli americane e la provincia italiana dove, dopo la guerra, si cercano le vie più brevi alla felicità, si vuole evadere dalla prigione della classicità, dal melodico, dalla subalternità saltando giù dalle spalle dei giganti del passato.

Ma la caparbia novità del testo consiste nella scrittura, nell’intuizione, nelle varianti, nelle improvvisazioni. Intanto la narrazione avviene con un ritmo, con un’intonazione dinamica che presenta i fatti con una felice dialettica tra esterno e interno, tra l’agire e il pensare con passaggi velocissimi tra le quinte e il palcoscenico, tra la maschera e il volto. I periodi della vicenda sono a volte franti per lasciare spazio all’intonazione lirica, al dato poetico che spesso si presenta in rapporto al paesaggio e alla luce, al ritmo e ai suoni della natura (in Puccini questi diventavano note, in d’Annunzio parole, canto). L’architettura logica obbedisce all’intento di cercare un equilibrio tra l’orizzontalità descrittiva e la verticalità della fuga con un uso vorticale delle varianti lessicali e dei loro effetti musicali. Un testo dalla solida radicalità italiana e dall’energia innovativa propria della letteratura nordamericana. Voglio aggiungere che ci sono momenti nello sviluppo della vicenda in cui la scrittura di Agostinelli perde il tratto consapevolmente letterario (assieme ai tratti e alle caratteristiche proprie dello stile discorsivo legato all’abbondanza pletorica di vita che informa, al vivere errando, al gergo e allo slang che si placano accanto alla lingua media) per diventare genialmente poetica, obbedendo a interne leggi metriche. Leggerlo è una vera avventura intellettuale.

Alessandro Agostinelli, Benedetti da Parker, Cairo editore, 2017, pp. 176, euro 14,00.

 

 

 

 

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