Il Premio Pavese per la poesia 2022 è stato assegnato a “Aurum Tellus” di Gavino Ledda.
Nell’occasione ripubblichiamo con piacere un articolo della nostra Franca Bellucci sul poema mondo dell’autore sardo (Grandevetro 252, estate 2022)
Di Terra in terre
Se si ammette che ci siano intellettuali capaci di incrementare la prospettiva dei cittadini, con la loro riflessione, con la propria visuale, Gavino Ledda va tenuto presente. La sua prima narrazione biografica, Padre Padrone, del 1975, rilanciata dal film dei fratelli Taviani nel 1977, determinò una frattura in Italia, un incitamento a prendere in mano la propria vita mettendo in discussione la tradizione. È stata, però, una sorpresa rendermi conto che Ledda era anche autore di un ampio, strutturato poema epico, scritto nel 1991, coerente con le sue esperienze e meditazioni sulla cultura, esprimendosi in sardo: il che è accaduto a fine 2020, quando si è parlato di Ledda come attore in un film presentato alla Mostra del cinema di Venezia. Procurato il libro, ne ho apprezzato gli aspetti generali, a partire dallo sguardo sapiente, lucido, con cui l’autore guarda il mondo.
Il titolo suggestivo, Aurum Tellus, latino, riecheggia il nesso, formulato da poeti latini ma ripreso dai moderni, di “alma Tellus”, al vocativo, come anche, associabile, “alme Sol”: “Terra – o Sole – fecondante”. Tellus, come Sol, è nome astrale: ma, conservando un’eco cosmica, ha poi indicato anche terra manipolabile dagli uomini, in testi con sfumatura aulica, mentre di Terra, sinonimo di Tellus, e pure appropriato per la designazione astrale, l’uomo è diventato così familiare, da costruirvi intorno una fitta nomenclatura, in definitiva appropriandosene. Il trend, per così dire, umanizzante è continuato nel procedere della storia: si vedano, per esempio, la “terra murata”, una forma urbanistica definita, o la “patria terra” rivendicata, da pattuire tra gli stati. Ecco che nel 1916, in agosto, soldati italiani combatterono «per Gorizia e le terre lontane», con l’obiettivo di spostare il fronte a oriente. “Terra” è ora spesso messa in rima con “guerra”. Ma questa parola micidiale non è altrettanto antica. Deve essersi creata per salti e nuovi contatti, per così dire, se ha alle spalle, nel tempo della lingua latina, il termine “bellum”, che, per altro, molti studiosi ritengono evoluzione di “duellum”, forse scaramuccia di due soggetti. Però, appena costituita la lingua italiana, “guerra” è già macchina impressionante, “crudele”: «Vedi, Segnor cortese, / di che lievi cagion che crudel guerra», interpella accorato Francesco Petrarca a metà del Trecento, raccomandando anzi al suo carme di fomentare senno e pace tra i “pochi magnanimi”: «Di’ lor: Chi m’assicura?/ I’ vo gridando: Pace, pace, pace».
Tuttavia il nesso Aurum Tellus in Ledda subito si scosta, per significato, dalle suggestioni offerte dai poeti latini: alla “Terra”, indicata con la nobile parola latina, egli associa l’elemento “oro”. Su di me, un tale titolo risulta di particolare impatto. Un tempo, non so quante annotazioni avevo rilevato su quello che ho denominato un “aurum geografico”, constatato, cioè, ricorrente in geografia – in latino e greco, certo, visto che i miei accessi sull’antico hanno a che fare con tali lingue, senza per altro ritenere che siano porte esaurienti –. Per dire: nelle Marche, Met-aurum, Pis-aurum, ma anche L-aurion, nella più lontana Attica – dove, per altro, la parola che designa “oro” è ben diversa. In definitiva, associo alla parola un paesaggio scosceso, di calanchi e ravaneti. Interpreto il titolo, dunque, come opportuno per uno scenario in gran parte mineralizzato, anche se pregnante per gli esseri umani, che di terra, in definitiva, vivono, e che d’oro hanno rivestito le loro ambizioni. I nomi del titolo, nello scavo sonoro delle lasse che andiamo a leggere, propongono questa materia: uno scenario in cui la storia minuta resta esclusa, se non per scorci compendiari, in un primo piano costituito di entità minerali o mineralizzate, che tali fondamentalmente restano anche in passaggi con protagonisti animati.
Il volume è di grande formato, un vero oggetto d’arte cui hanno messo mano, per le soluzioni grafiche, molti artisti, realizzato da Vanni Scheiwiller e Giorgio Lucini. La coperta è perforata da un oblò, baricentro di un quadrato, coinvolgendo alcune pagine, fino al distico: «[…] / e noi e noi eventi / e menti venti elementari / […]». Si capisce che si è prossimi alla trattazione, che collega insieme l’inanimato e l’animato, dopo quelle prime pagine perforate, da intendersi come presentazione complessiva. La sezione presenta infatti i segni scelti come prodromi della materia assunta dal poema. È importante, qui, la pagina che segnala unicamente una “e”, la congiunzione che sarà nella composizione il collante universale, verso per verso, nel viaggio-nenia di una dizione attenta all’impasto ritmico. Le parole – già ora ci accorgiamo, e la lettura ne sarà conferma – designano, ma anche risuonano, richiamano o contrastano, nella materia esposta. Nelle pagine perforate la lettura successiva è preparata da elenchi di termini, sia di elementi chimici, sia di elementi immaginati, che evocano vitalità: come “bonurio, femminio, lichenio, mammauzzio”. È questo che indica il “reale” poi dispiegato, cioè la materia della grande costruzione grafica e sonora. La innovazione linguistica su base analogica ha peso determinante nel fornire indizi da decodificare, immagini che valgono pensieri e passaggi: si vedano le stelle, spesso designate come “coltelli del cielo”.
È vero: Aurum Tellus è una vicenda del mondo per stadi irreversibili, in cui Ledda si pone davanti al cosmo con interpretazioni soppesate e con forma originale, sul piano compositivo come su quello linguistico. È un’opera spiazzante, non interna ad una preesistente dottrina: in questo, dunque, ben diversa dal poema di Lucrezio. Mi ci avvicino per puntate successive, un disvelamento che è lontano da concludersi. “Viaggio-nenia”, ripeto: quale il modello? Verrebbero da associare ritmi per la collettività orante, e certamente qui il coinvolgimento e la sensibilità verso il tutto come verso il collettivo da presupporre partecipe accanto al recitante creano situazione analoga. Tuttavia il ritmo è parte del “reale” analizzato, che è un accadimento e un accaduto che procede fondamentalmente in un solo senso, senza ritorno. Si narra, o si legge, o si ascolta, senza vie d’uscita, senza ritrattazioni. Dunque non valgono espedienti che possano essere di intercessione o di straniamento. Nella forma compositiva risuona piuttosto qualcosa di molto antico, didascalico, vicino alle filastrocche. Ho in mente Esiodo, in quell’opera, di cui residuano solo frammenti, che si indica come Catalogo delle donne, ma che in antico era detta “E oie”, cioè “O come quella che”, perché così il poeta ripeteva introducendo le varie situazioni.
Il poema di Ledda rivisita la scienza della Terra, confermando la cultura sarda, di cui sono parti importanti la musica – e qui, per altro, si includono pagine di spartiti musicali – nonché la cura della pastorizia. Tutta la ricerca è ricostruita assecondando la finzione iniziale, del dialogo tra un muflone (mugrone) e il figlio per gli interrogativi che questo pone sul mondo circostante, di cui padre e figlio, in buona parte insieme, constatano i nodi. È favolistico questo approccio? Sì, ma solo per quel tanto che basta a vedere i tratti essenziali della vicenda da più punti di vista, e a irridere l’uomo, che, megalomane, non si accorge delle abilità elaborate dagli altri esseri, anzi si illude di essere vertice, obiettivo atteso dal cosmo. Qui, insomma, la cultura è ben diversa da quella di chi elabora calendari solo sulle memorie degli umani. In questo prologo si registrano prime risposte, non convincenti, così che interviene una opportuna sosta – e un sonno benefico – fino a p. 68. Si spiegherà dopo, con lucidità, la cosmogonia, parte predominante della composizione, chiudendo poi questa prospettiva a pag. 173. In realtà il poema, pur guardando a un genere antico, ha un approccio attuale, ispirandosi alla scienza contemporanea: le forme acquisite hanno intorno scie di prove e di insuccessi, e l’uomo stesso è pure esito di molteplici prove, tra assetti temporanei di cui non sempre sono rimaste tracce. Non è affatto rassicurante la prospettiva: male ne pensa il muflone («gli òmines non sono solo ignoranza di essere ignoranza, ma sono responsabili di avere violentato natura a loro piacere», p. 65) e male prevede il poeta: «e terra e guerra abiteremo e dolcèrra e amarèrra».
In giorni di guerra per dissuadere l’autodeterminazione di un popolo, e di invio di armi sofisticate per accrescere il numero di morti da portare al tavolo delle trattative, la divagazione tra le pagine di Aurum Tellus funziona: ad ogni sguardo impatto in una pagina illuminante. Ecco, alle pp. 134-138, i flash sulle sostanze chimiche: gli attinoidi, i lantanoidi, il gruppo delle materie scoperte dallo scienziato V. M. Goldschmidt, che arroventano oggi i commerci. E a p. 68, quando i mufloni, padre e figlio, si preparano a un sonno agitato, valgono per ammonimento le parole del padre: «Tu reghere imperio, populosss, romane, memento… attenzione, mugroné, attenzione…»
Gavino Ledda, Aurum Tellus, Libri Scheiwiller, Milano, 1991, pp. 300.
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