I VIZI SOLO PER I BENESTANTI di Riccardo Roni

In questo suo nuovo libro dedicato all’etica, I vizi capitali. Dal peccato al mercato, Piero Paolicchi fornisce una rappresentazione complessa della soggettività umana, facendo luce non solo sul passaggio dalle antiche passioni ai vizi, ma anche dai vizi ai nuovi peccati, e dai vecchi peccati alle nuove virtù di massa sempre più esibite. Sulla scorta di Dante (Divina Commedia), Paolicchi presenta i sette vizi secondo un ordine di gravità crescente – lussuria, gola, avarizia, accidia, ira, invidia e superbia (pp. 29-129) – ricordando giustamente come in Aristotele prevalesse una interpretazione del vizio secondo un’etica della misura, giacché, rispetto agli eccessi, nell’antichità classica veniva fatta valere la legge della mesotes, ovvero «di quella virtù che non si traduce nella vittoria totale sulla carne e sul mondo, ma governa desideri e godimento dei beni mondani senza varcare i confini del giusto mezzo» (p. 16), mentre come con il Cristianesimo si sia assistito ad un radicale mutamento di paradigma, in quanto il vizio è andato a collocarsi all’interno di una morale del «peccato», che oppone ad ogni vizio una virtù corrispondente, con il risultato di aver creato una società di peccatori in colpa verso se stessi.

Entro tale cornice – lo si comprende facilmente – è destinata a restare aperta la questione di come potersi muovere con prudenza e saggezza nel mondo, operando scelte «tra possibili eccessi in direzioni opposte» (p. 17), una questione che continua a far interrogare la riflessione etica contemporanea, laddove si assiste, ad esempio, alla persistenza storica della virtù interpretata e vissuta come «volontà di potenza», ovvero alla giustizia come l’utile del più forte (pensiamo al discorso di Trasimaco nel I libro della Repubblica di Platone), orientata contro i più deboli e i più svantaggiati. Temi, questi ultimi, ancora di indubbia attualità, nei confronti dei quali sono chiamate a confrontarsi le scienze umane, trattandosi la nostra di un’epoca in cui, più che le semplici passioni (che nella modernità Spinoza aveva rivalutato, ponendole sotto il controllo della ragione), sono i vizi (talvolta anche indotti) a diventare «la molla dei principali settori di produzione e di consumo delle società cosiddette avanzate» (p. 22). Anche nella classificazione dei vizi, sempre più esibiti, ricorda giustamente Paolicchi, si fanno valere le differenze di classe. Perché almeno cinque vizi su sette figurano come un «privilegio», certamente non alla portata di tutti: la gola, la superbia, l’accidia, l’avarizia e la lussuria presuppongono infatti una certa libertà nella ricerca del piacere; sul versante opposto, invece, l’invidia e l’ira «esprimono soprattutto l’insofferenza e l’indignazione per l’iniqua distribuzione di quegli stessi beni o di quelle condizioni che consentono agli altri di essere golosi, superbi, accidiosi, avari o lussuriosi» (p. 25).

Come è diventato ormai noto ai più attraverso la riflessione morale di Nietzsche, questi ultimi due vizi (in particolare l’invidia, la passione «triste» per eccellenza) starebbero alla base di quella «morale del risentimento» che non pochi problemi ha portato alla società e alla storia del genere umano. Collocandosi all’incrocio tra natura e cultura, i vizi non sono soltanto il risultato di una interpretazione culturale della soggettività umana, perché almeno quattro di essi (lussuria, gola, accidia e ira) sono più o meno direttamente connessi con le funzioni vitali dell’individuo come organismo biologico, mentre gli altri tre (superbia, invidia e avarizia) rimandano all’esistenza sociale degli individui inseriti in una rete di relazioni complesse. Questo processo così pervasivo di trasformazione delle passioni in vizi, poi dei vizi in peccati, ed infine dei peccati in nuove virtù da ostentare nello spazio pubblico, in modo da superare o semplicemente sfidare ogni limite imposto da qualsivoglia morale, oggi pare certo essere regolato dalla scienza e dal mercato, ma nel contempo secondo regole sempre più difficili da ricondurre ad un esclusivo paradigma normativo di riferimento, in particolare se consideriamo questo processo da una prospettiva democratica e liberale. Ed è proprio questa metamorfosi storica delle passioni in vizi, dei vizi in peccati, e dei peccati in nuove virtù di massa, che sembra aver contribuito in modo emblematico a rendere il concetto di «normalità» sempre più poroso e perciò ancora passibile di continue revisioni concettuali. Questo libro vuole essere un invito a tale revisione.

 Piero Paolicchi, I vizi capitali. Dal peccato al mercato, CTL Editore, Livorno, 2019, pp. 132, € 14, 00.

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