Diciamola tutta. Senza ipocrisie. O fraintendimenti. Nessuno viaggia più. Una affermazione azzardata, con i treni sempre più veloci, gli aerei sempre più economici, le auto sempre meno inquinanti.
E non sono quelli viaggi. No, al massimo trasferimenti per nuove o note destinazioni. Non è viaggiare. Lo dice la parola stessa, che deriva da un termine provenzale venuto a sua volta dal latino viaticum, cioè la provvista necessaria per cominciare il viaggio. Qualcuno fa questa provvista? Al massimo l’acqua contro la calura e la banana per il bimbo. Dove è l’ansia di trovare un pozzo, o un contadino generoso o una locanda sperduta? L’ansia è riservata alla puntualità del volo low cost o al maledetto taxì che non si trova. L’ansia è sulla temperatura (troppo caldo troppo freddo), o per la coda per vedere qualcosa che la televisione ha già spulciato in ogni particolare. L’ansia è per non avere avventure. Pensate a cosa si sarebbe perso Odisseus se per tornare dalla sua Penny tessitrice avesse preso un low cost da Smirne fino a Salonicco e da lì un piccolo aereo fino alla corta pista di Itaca.
Cerchiamo nel viaggio la sicurezza, quando è evidente che il viaggio, per sua natura, è incertezza, rischio, opportunità, conoscenza, di uomini, di luoghi, di costumi, di pensieri. E invece no. Ci sorbiamo migliaia di chilometri nella certezza che la distanza non ci priverà degli spaghetti e del caffè.
Curiosamente due persone ben distanti, nel tempo, nello spazio, nel pensare, come Sant’Agostino da Ippona e Maometto condividano lo stesso concetto. Dice Agostino: “Il mondo è un libro, e quelli che non viaggiano ne leggono solo una pagina”. Mentre il fondatore del pensiero islamico afferma: “Non dirmi quanti anni hai, o quanto sei educato e colto, dimmi dove hai viaggiato e che cosa sai”. In ambedue c’è l’idea del viaggio come conoscenza, non grazie alle guide turistiche (cartacee o umane), ma come esistenza, come formazione, come cambiamento, come stupore del vivere.
Vabbè, mica tutti possiamo far il grand tour sul modello britannico del XVIII secolo. Non è più stagione. E nemmeno Bruce Chatwin in Patagonia, o Jack Keruac con On the road. Mica tutti possiamo essere loro. Altrimenti loro non sarebbero loro e noi non saremmo soltanto noi. E che ci resta da fare? Come i pellegrini di un tempo? Macché, anche per andare a Santiago di Compostella tutto è organizzato, e la Francigena è una memoria celebrata ma non calpestata.
Beh, ci resta la possibilità di viaggiare. Ma non avevamo detto che non si fa più? Sì, è vero. Per le lunghe distanze. Ma possiamo andare a fare la spesa senza l’auto, per guardare nel viso chi ci viene incontro. Possiamo usare la bici per scoprire vicoli mai percorsi. Possiamo raggiungere il monastero non come penitenti ma come gaudenti del bello intorno. Possiamo tante modeste cose che ci liberino dalla pensiero ossessivo dell’ubiquità. Piccoli passi, per dirla con i cinesi, che segnano sempre l’avvio di un lungo viaggio.
È ovvio che indietro non si torna, non solo perché la freccia del tempo (sebbene i fisici dicano che teoricamente è possibile anche il contrario) per ora va sempre in avanti, ma soprattutto perché il grande viaggio che compiamo in ogni attimo dell’esistenza è il cambiamento. E noi cambiamo, forse non nell’intimo, ma certo nei comportamenti sì. Il viaggiare era tema di nobile istruzione, di affari o di guerra. Ora è di massa, con gli affari non vedi nulla e le guerra si fanno quasi a distanza, e comunque si marcia poco né si usano cavali. Il turismo dentro un Abraham non è cosa desiderabile. Quindi nulla da eccepire. Quello che non si capisce è perché ci si ostini a volere vedere più cose nel minor tempo possibile e non una bella cosa in modo decente. Prendiamo il caso del trittico obbligatorio di Venezia-Firenze-Roma. Non sono solo belle, ma loro bellezza è storia, un divenire anche di millenni, e scoprendo un po’ di cose ti offre anche un po’ il senso dell’oggi. Tutto macinato in una settimana, con estenuanti code magari di ore al freddo o alla calura per scattare delle foto che in rete sono pure più belle. Tornare a casa esausti con la mente, con la stessa quantità di vuoto a perdere. Una assurda bulimia che si traduce inevitabilmente in anoressia culturale. Ma la macchina è gigantesca, e non può essere fermata. Perché c’è la corsa alle figurine mancanti, come un tempo accadeva con i calciatori della Panini (chi ricorda l’introvabile portiere Pizzaballa?), o l’ancor più Feroce Saladino della Buitoni e ci mettiamo pure le figurine della Liebig che hanno imperversato per oltre centro anni a cavallo dei due secoli scorsi. Le differenza è nelle facce: non c’è Boniperti o Maradona, ma me medesimo sullo sfondo della Torre Eiffel, della Grande Muraglia, del Grand Canyon. O del Monte Rushmore o del Bunker tedesco in Normandia. E non sappiamo proprio niente della Operazione Overlord o di cosa ha significato la Muraglia.
Non è una indignazione da snobismo culturale, ma il dispiacere di sprecare soldi tempo e conoscenza in cambio di foto, che nemmeno maneggiamo in quanto la gran parte resta in memoria elettronica. Tutto smaterializzato, conoscenza inclusa. Ma tutti ricordano il cibo di ogni pidocchiosissimo posto. E cercano di menarcela come esperienza culturale. Straordinaria comunque se nessuno dei presenti l’ha provata, tranne il narratore di turno.
Perché non investire meno soldi e più amore per il sapere ancora a noi ignoto? Perché non passare dalla superficie liscia e luccicante a qualche centimetro di profondità più rugosa, più esplorabile e istruttiva? Il viaggio ha un senso se lascia in te qualcosa di più di autoscatti e foto modello cartolina.
Parole al vento. Sono sparite le categorie sociali che avevano questa ambizione e soprattutto le possibilità. Chi ha denaro salta di 5 stelle in 5 stelle, chi può sceglie bei viaggi organizzati. Ottimo. Il risultato è identico. Dimenticando che ogni nostra città nasconde bellezze e segreti da scoprire, ma a piedi e senza dogane. Non solo ma ci racconta perché siamo quello che siamo e come è successo. Ci fa capire quello che accade oggi, frutto di quel che accadde ieri. Ci istruisce al bello. Ma è come se lo stupore a chilometro zero non valesse quanto quello a migliaia di chilometri di distanza. Non si può neppure invocare la passione per l’ignoto se poi si va dietro una signorina che si fa riconoscere con un ombrellino pieghevole tenuto alto sulla testa.
Così il viaggio perde anche il valore simbolico del fascino dell’ignoto, con le Colonne d’Ercole sostituite dall’ingresso di un grande magazzino in qualsiasi parte del mondo, dal negozio di ricordini.
La riprova è nei numeri. La notizia è recente: l’Italia ha superato la Francia quanto a pernottamenti. Cioè noi siamo più turistici di loro ma meno della Spagna. Un successo. Economico. Proviamo a fare un test Invalsi su quanto il turista ha imparato sul paese nel quale ha viaggiato. I nostri test analoghi sulla matematica in terza media sarebbero straordinari in confronto. Ma c’è un ulteriore paradosso. Cresce a dismisura il il viaggiare nel mondo, ma parimenti cresce l’intolleranza, il fastidio razziale, lo pseudo orgoglio nazionale, l’ostilità per ciò che non sia identico a noi stessi.. Una specie di snobismo colonialista culturale ma senza cultura né conoscenza.
Certo c’è il trionfo del sushi o dei tribali di culture lontane. Ma non è molto. Il vantaggio del viaggio è la visione, la comprensione, la conoscenza reciproca quindi la pace con annessa liberatoria convinta fratellanza. Ma sono rischi che al momento non corriamo. Così continuiamo a trasferirci da uno zoo culturale all’altro senza ricordare nemmeno i nomi degli animali che ci vivono. Però abbiamo le fotografie.
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