La discussione sui NUOVI MAESTRI: l’Editoriale

(Vittoria Mazzoni, BW)

Giovanni Commare     NUOVI MAESTRI

E io che avevo ormai raggiunto un punto fermo, una spiaggia assolata, da cui contemplare le cose dell’arte: cioè, che l’arte non ha nulla da dire, perché è un fare (ars è capacità di fare), tocca poi allo spettatore interrogarsi sul senso di questo fare accettando la sfida delle forme e dei punti di vista nuovi.  Invece, ora che le Biennali sono diventate Collezioni dove sono rappresentate le più varie e contrarie tendenze, pare che l’artista abbia molto da dire per giustificare il proprio fare. Dunque mi tocca allontanarmi dal mio punto fermo per ascoltare artisti che hanno molto da dire e fanno pure teoria.

Certo non possiamo essere contro le teorie noi che veniamo da un pensiero forte, quello che voleva abolire lo stato presente delle cose per costruire la società davvero libera, senza lo sfruttamento, e persino l’uomo nuovo. Forte era anche il nostro pensiero sull’arte, quello che aveva portato alla scelta del nome Il Grandevetro, suggerito da Romano Masoni, un pronunciamento senza equivoci a favore dell’avanguardia, anche nell’arte. Insomma la rivoluzione non doveva perdere il filo rosso e nero dell’anarchia: se volevamo sceglierci un padre putativo non era Guttuso (senza offesa!) ma Duchamp, cioè l’arte capace di ripensare i suoi strumenti, provocare la tradizione, cercare nuove forme. Se Il Grandevetro è vivo e lotta insieme a noi è e per questa anima anarchica a cui non ha mai rinunciato.

Per fortuna. Come non esiste una parrocchia del Grandevetro, così non esiste nemmeno un’estetica grandevetrista e possiamo permetterci il lusso di coltivare i cento fiori. Guardiamo l’arte in cui ci possiamo rispecchiare, quella che fa i conti con la storia (si veda l’idea dei “pittori resistenti”, Grandevetro , estate 2019), meglio ancora se la sentiamo vivere dentro la vita di tutti (o almeno di tanti). Ma guardiamo anche all’arte che si pone fuori del discorso comune e si presenta come provocazione o sfida nella ricerca di nuove tecniche, di nuovi orizzonti di senso. Non esiste, infatti, in arte un’ innovazione tecnica, un rinnovamento del linguaggio, che non postuli un mondo altro. È  per questo che anche l’elaborazione del concetto più astratto può contenere il calore della vita  e può essere amato, se riusciamo a coglierlo.

A documentare la complessità del fare arte oggi, abbiamo deciso di allargare il nostro orizzonte affidando all’amico Renato Ranaldi il compito di selezionare un gruppo di artisti significativi per la qualità della loro ricerca nel panorama del contemporaneo. Nelle pagine seguenti trovate il risultato di questa ricerca. Le regole d’ingaggio prevedevano: un’immagine formato A3 d’un lavoro rappresentativo dell’artista, un testo indicativo del proprio fare arte accompagnato da un breve curriculum, una foto personale o altra immagine con funzione identitaria. Per ragioni di spazio abbiamo sacrificato i curricoli. D’altra parte, ogni artista ha interpretato, ed era ovvio, le consegne con una certa libertà.

Abbiamo l’opera e la teoria dell’opera: l’opera col testo a fronte. Ogni lettore, secondo che appartenga alla categoria di quelli che in un libro saltano sempre le introduzioni oppure sia tra  coloro che non procedono se prima non hanno letto tutti i paratesti, sceglierà la pagina da cui partire. Chissà che non si riesca a smuovere il macigno che fa dire a molti distratti “l’arte moderna non si capisce”. In ogni caso, restiamo convinti, col poeta, che è presunzione voler raggiungere illesi il senso ( G. Ciabatti, 1998). Ognuno deve assumersi qualche  rischio nel rapporto con l’altro da sé.

Sono artisti diversi tra loro, è evidente, ci sembra però di cogliere una linea dominante: il tentativo di rappresentare delle cose non ciò che si vede ma l’invisibile, e per giungere a questo risultato si va, forzando limiti e risorse delle forme, oltre la percezione dei sensi o si  indagano le relazioni misteriose fra gli elementi. C’è anche chi risale allo statuto originario dell’arte trovando  nella contemplazione della natura la via che introduce all’inesauribile ricchezza delle forme e alle radici del sacro. Anche (o forse soprattutto) quando sembrano disintegrati i fondamenti della tradizione, gli oggetti ordinari, le cose di nessun valore, possono diventare segni di una nuova conoscenza.

Che le cose non sono come appaiono, l’abbiamo già sentito e persino intuito. L’arte, la vera arte, mostra il limite della percezione e obbliga la mente a un salto oltre l’illusione, verso un superiore livello di conoscenza dove affiorano i fondamenti del vedere, del pensare e del fare. L’arte come arte che vive della propria inutilità, nel senso che si sottrae al dominio dell’utile, può suggerire margini di libertà, postulare nuovi modelli di relazioni libere da costrizioni. Un pensiero critico?       Certo una consapevolezza dell’esserci e del fare. Prospettiva attualissima, con radici antiche nella prima estetica della modernità, se è vero che il concetto dell’inutilità dell’arte risale a Kant: l’arte non ha altro fine che affermare se stessa, la sua pura e semplice necessità d’esistere.

L’arte torna sempre alle proprie origini, origini come fondamenti, come esplorazione delle tecniche, come esplorazione dei materiali, ma anche come tensione alla semplicità  assoluta che intuisce nel mistero della natura l’orizzonte del sacro e fa del segno un simbolo per volontà, magia o incantesimo. Un segno che si spera sopravviva all’autore: rispetto alla natura che tende a cancellare le tracce della presenza umana, lasciare segni è un’affermazione dell’esserci, con l’illusione di aver vissuto un grande giorno.

 

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