( L. Sabatelli, La peste di Firenze raccontata da Boccaccio)
Forse verrà tempo che qualcuno dirà: «Al tempo del corona-virus», come i nostri vecchi dicevano: «Ai miei tempi», e come un ameno canterino quattrocentesco cominciò il suo poemetto sulla tremenda guerra fra Carnevale e Quaresima dando le seguenti coordinate cronologiche: «Al tempo che volavano i pennati». Forse allora saremo tutti diventati pure anime, forse tutti avremo dimenticato tutto, tranne un bambino rimasto a piangere senza mamma come quello solo e disperato dopo una strage nelle paludi di Sciuscià. Forse che sì. Ma qui pochi piangono, qualcuno porge una mano e ognuno memorizza e archivia angoscia rabbia sgomento per avere domani un copione da film.
Mentre scrivo volge alla mezzanotte il dì 8 marzo 2020 e di festeggiar le donne non si ragiona. Quando il pezzo lo vedrò a stampa, saremo già tutti sani, risanati e immortali, come tutte le sempre risorgenti schiere studentesche, che non hanno paura della Morte, perché loro non riguarda. E stanno assemblati in piazza a celebrare con turpi alleluia il collega che è stato lodato e laureato con tre semisecche foglie prese a un alloro sclerotico di città, o a lumare e toccare le pupe stringendo in mano la gloriosa lattina di birra che ha fatto la strada di Tipperary. Figli di un benessere epidermico, non avrebbero nemmeno il coraggio di quei giovinastri che attendendo la Cina e stringendo i pugni in tasca saltarono sulla bara della madre. Incoscientemente non rinunciano a superare il metro di sicurezza per sentire quel frizzicore che ti scende per la schiena, anche a costo di veicolare senza pietà la morte dei nonnini poverini che tanto chi se ne frega, peggio per loro. E parla parla il sapienton televisivo nazional-popolare né di destra né di sinistra e per par condicio nemmeno di centro. Parla parla e dice tutto sulla responsabilità come faceva frate Cipolla dal pulpito di Certaldo con la penna dell’agnolo Gabriello e i carboni della graticola di san Lorenzo.
Ah ecco, frate Cipolla, vecchio compagnone, mi ricordi il tuo grande maestro Giovanni, che anche lui si trovò in mezzo a uno sconvolgimento sociale, per verità molto più grave di quello di questo 8 marzo. La furia della peste galoppava da Oriente verso Occidente come lo scheletro di palazzo Sclafani con falce in mano su un cavallo pallido, e sotto c’era un mare di morti d’ogni ceto e razza. Non trecento cinquanta virgola quattro, ma milioni, e si credette anche che fosse venuta la fine del mondo (poveretti, non avevano per loro fortuna visto la Seconda Guerra Mondiale e per forza avevano ordini di grandezza limitati!). Ognuno pianse doverosamente i suoi cari, Petrarca si liberò finalmente del figlio scapestrato e poté viceversa innalzare il monumento più perenne del bronzo alla sua Laura spentasi come neve che fiocca lentamente e diventata vincitrice della morte grazie al fulgore della sua bellezza.
Ma il suo amico che un figlio maschio da piangere non aveva né una donna amata da sublimare per andare avanti a sopportare una vita che meglio sarebbe stato non ricevere da madre natura, quell’amico amabile, mite, normalmente tranquillo tranne quando sentiva aleggiare intorno odore o soavità di donna, pensò che quello era il tempo maturo per il ‘racconto’ (attenti! non la triste ‘narrazione’ inventata da un politico già passato di moda, e meno fortunato della sua invenzione). Non si chiese il grande boccaccevole, il grande boccaccesco Boccaccio se la peste fosse colpa o destino, se le stelle la infliggessero per loro capriccio o se il Dio creatore del cielo e della terra la mandasse per punizione dei peccati umani. Non era un ecologista né antropocentrico né globalitario il Boccaccio, non aveva terrore della natura né stava in estasi davanti ai suoi abissi di orrore. Raccontava, e la parola fluiva maestosa dalle bocche dorate dei suoi personaggi e passava dalla sua penna sulla lucidata pergamena colorandosi di battute felici, sarcastiche, dolenti, innamorate, salaci, orgogliose sempre della loro solenne altezza e gioiose della procacità dialettale, aggirandosi eroticamente soddisfatte nei labirinti di periodi ciceronianamente sinuosi e dolci per ritmi segreti e per assonanze e lenocini vaghissimi, come dolci erano gli occhi e morbide le braccia di Pampinea e forti e belli di santa giovinezza i capelli e le arguzie maliziose di Dioneo.
Capì Boccaccio che mai come allora gli si era offerta l’occasione di porre sotto la lente i vizi, il valore, i desideri, le male e le buone voglie umane, e l’amore per cui si può morire e il mettere il diavolo in ninferno per cui si può vincere la lotta contro le tenebre della falsa religione, ma tacque dei terrori chiliastici, delle psicosi e del panico collettivo. Solo etichettò di barbari quelli che mettono il mondo a ferro e fuoco. Capì che allorquando i vincoli morali e i doveri civili e gli affetti della famiglia e dell’amicizia entravano in crisi e venivano calpestati dalla tracotante violenza dell’epidemia e dalla sconcia libidine di voler vivere ad ogni costo, quello era il momento per richiamare i suoi simili in un giardino di poesia, in un kepos epicureo, e lì rinchiuderli magicamente, non per fare l’ultimo macabro e orgiastico ballo come i prigionieri dell’abbazia fortificata della Morte rossa che lui non poteva conoscere, ma per riportarli alla purezza della vita più semplice e più contemplativa, fatta di nobiltà e cortesia, di ludi d’amore, di fede in noi stessi. Il figlio del mercante, nutrito prima alle leggi degli affari negli angiporti multietnici di Napoli, e poi abbagliato dalle prime luci dell’umanesimo, intuì che al trionfo della Morte non andava contrapposto un metafisico trionfo dell’Eternità, bensì l’arma del logos fattosi umanità e carne, che è come dire le arti e le scienze. Fu così che, senza tanti voli teorici, quasi senza accorgersene, raccontò, all’insegna della chiarità di Apollo e dell’entusiasmo di Dioniso, l’altra commedia dopo quella divina di Dante, la desanctisiana commedia umana, e divenne, come il vecchio cieco che tutto vedeva, il dipintore delle memorie antiche, e in più il messaggero, dalla domuncula di Certaldo, di un patto nuovo di pace fra la nascente borghesia industre e i giovani vigorosi, appassionati e proletari ricercatori di nuovi cieli e nuovi mondi, aperti verso l’immenso. E noi italiani, suoi immeriti compatrioti, abbiamo prima tollerato che l’intolleranza dogmatica condannasse tutto questo e lo proclamasse indicibile, e poi abbiamo aspettato che la Natura tornasse a scatenarci addosso la sua indifferente crudeltà per avvicinarci a capire il senso del Decameron. Grande Boccaccio!
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