ACHILLE E LA TARTARUGA di Piero Paolicchi

Apprendiamo con grande dolore la notizia della morte di Piero Paolicchi, professore di Sociologia all’Università di Pisa, amico e fedelissimo collaboratore della nostra rivista che ha generosamente arricchito con articoli di raffinata sapienza e umanità. Piero aveva scritto anche per il prossimo numero che uscirà a settembre, esortandoci a stare all’erta  contro la miriade di pescecani, lucci e branchi di altri soggetti spinti dalla comune volontà di azzannare il più possibile di tutto ciò che potrebbe attenuare il divario dei rischi e dei disagi se distribuito secondo criteri di equità.

Ed è l’articolo che qui anticipiamo.

Grazie Piero, ti ricorderemo.

Santa Croce sull’Arno, 4 agosto 2020 Il Grandevetro 

 

ACHILLE E LA TARTARUGA

Andrà tutto bene” è risuonato nelle orecchie di tutti come un mantra non certo consolatorio per chi stava vivendo il disastro della pandemia, semmai di augurio per il dopo. Ma si è potuto ben presto capire, per esperienza sulla propria pelle o su quella di persone care, che non c’era nessuna, non diciamo garanzia, ma fondata speranza, che potesse andare tutto bene a chiunque: la salute, l’economia, la tranquillità o semplicemente il ritorno alla quotidianità di prima della tempesta.

Quello che sarebbe accaduto era piuttosto che molto se non tutto sarebbe andato bene a pochi e molto se non tutto sarebbe andato male a tanti, tantissimi.

Una previsione tanto facile quanto sicura per chiunque abbia osservato i processi economici e sociali in atto in tutti i paesi cosiddetti avanzati, indipendentemente dal carattere democratico o autoritario dei loro governi, già in tempi normali cioè in assenza di eventi eccezionali come guerre, terremoti, inondazioni o pandemie: in tutti è in atto una progressiva concentrazione delle risorse nelle mani di poche persone. Secondo uno studio condotto dal World Institute for Devolopment Economics Research delle Nazioni Unite, nel 2000 l’1% degli adulti ricchi possedevano ormai da soli il 40% dei beni del mondo. Nel 2018 ventisei individui possedevano la ricchezza di metà della popolazione mondiale, quasi 4 miliardi di persone; nello stesso anno in Italia il 5% più ricco possedeva la stessa quota di ricchezza posseduta dal 90% più povero.

È il paesaggio economico, sociale e morale che si era presentato all’orizzonte con la fine del medioevo, nelle città dei mercanti, dei banchieri, delle arti e dei mestieri, che poi si consoliderà nell’ideologia borghese capitalista, sia quella della ricchezza benedetta dal Dio dei Calvinisti, sia quella autolegittimata dalle leggi del Mercato dei moderni operatori finanziari. Se Dante aveva affermato che superbia, invidia e avarizia stavano portando Firenze alla rovina, poco tempo dopo nella stessa Firenze uno spregiudicato osservatore come Poggio Bracciolini scriveva: “Dovrai pur confessare che questa brama della ricchezza è per natura insita in tutti. Tutti infatti, in ogni età, in ogni condizione, in ogni onore, in ogni dignità, sono presi dal desiderio dell’oro”. Accumulare denaro, proseguiva, significa non solo garantirsi sicurezza economica, ma procurarsi onori che stimolano a lavorare con più dedizione, finendo per arricchire anche le riserve delle città.

Era l’anticipazione di un criterio sintetizzato poi tra il Seicento e il Settecento nella formula “vizi privati = pubbliche virtù”, nel senso che tutto ciò che è considerato vizio dalla morale tradizionale nella sfera privata sarebbe l’unica vera molla dello sviluppo e del benessere collettivo. Alla versione di Poggio Bracciolini e dei filosofi del Settecento sono seguite versioni sempre più sofisticate, proposte perfino da economisti insigniti da premio Nobel o arrivati nelle sue vicinanze, corredate di numeri, formule, algoritmi, da convincere anche il più renitente San Tommaso tra i cosiddetti uomini della strada. Quella oggi in voga si presenta con la metafora del calice (le tasche dei paperoni) in cui si concentrano le ricchezze di una società, e che a un certo punto sarà pieno fino all’orlo, finendo per riversare un po’ del contenuto in basso, su coloro che non sono tra i padroni del calice. Gli autori hanno battezzato la loro teoria Trickle down, che in italiano sarebbe sgocciolamento, con una scelta linguistica forse inconsapevolmente ironica, che fa capire quanto poco del contenuto finisca verso il basso: roba da leccare il manico del calice, non certo da leccarsi i baffi.

Le spinte contro tale sistema, sia come modello economico che come modo di vita, verso una più equa distribuzione della ricchezza, sono ovviamente attaccate dai detentori del potere, con accuse di pauperismo, giustizialismo giacobino, invidia e odio. E dalla loro parte non ci sono solo gli ideologi della legittimità dell’avidità in se stessa, come unico valore fondato su basi di concretezza e ragionevolezza. Ci sono anche psicologi, filosofi, economisti che cercano di allentare le tensioni prodotte sempre dalla disuguaglianza rafforzando l’idea che “i soldi non danno la felicità”, che “quando c’è la salute c’è tutto”, “chi si contenta gode”, “chi troppo vuole nulla stringe”, e altre ancora; ma studiosi più seri, senza ipotizzare la scomparsa delle differenze economiche, accettano l’idea del filosofo John Rawls che nei paesi progrediti in giustizia e democrazia tali differenze si dovrebbero ridurre col tempo; o in modo più pratico cercano di quantificare il poco di cui ci si può contentare, che deve rimanere al di sopra di una soglia a cui i poveri invece non arrivano, non avendo perciò nessuna ragione di accontentarsi, e meno ancora di godere.

Nel lontano passato, eventi eccezionali potevano attenuare il divario, se non proprio mettere sullo stesso piano ricchi e poveri, nobili e popolani come il marchese e lo spazzino della poesia di Totò in cui il secondo ricorda all’altro che “la morte è una livella”. Ma in realtà anche di fronte alla morte le diverse condizioni prodotte dal crescente divario nella disponibilità di risorse mettono ben presto alcuni più a rischio di altri, tanto più in quanto al divario meramente economico si aggiunge quello relativo all’accesso a conoscenze che fungono da prevenzione e a strumenti tecnologici a cui affidarsi per le cure: anche in questi ambiti lo sviluppo ha in qualche misura migliorato in assoluto le condizioni di vita dei più poveri, ma ampliato il gap che li separa dalla minoranza dei più ricchi.

Già verso la fine del Medioevo il divario era evidente: Boccaccio ce ne dà una rappresentazione letteraria ma tutt’altro che irreale nei giovani che godono le loro dieci giornate di lockdown in villa mentre la peste infuria nelle vie e nei tuguri della città. In epoca moderna, infine, gli stessi eventi sono per alcuni non un intermezzo dopo cui riprendere il cammino interrotto, ma una spinta a correre più velocemente che mai, mentre altri vengono travolti e se non eliminati almeno azzoppati. Sono i momenti in cui escono dalle tane non solo gli sciacalli, alla ricerca di qualche brandello di umanità macerata, turpi quanto si vuole ma meno dannosi per la collettività dei pescecani, così definiti quando emerse in superficie il loro giro di affari nella preparazione e nello svolgimento della prima guerra mondiale, proseguito poi con la successiva ricostruzione. E con la seconda guerra mondiale e le successive cosiddette regionali o locali, le cose non sono cambiate, se non per le dimensioni crescenti dei profitti.

Alle grandi incursioni dei pescecani che si muovono negli oceani delle guerre, fanno riscontro quelle dei lucci, decisamente più piccoli ma non meno voraci, che popolano le acque di ogni fiume o lago o stagno dove scorrono le risorse necessarie per far fronte ai bisogni di una comunità colpita da una catastrofe. Sono rimasti nelle cronache di qualche anno fa quelli che furono sentiti gongolare in notturna alla notizia di un terremoto, ma il coronavirus, con le sue dimensioni, la varietà dei contesti in cui ha infierito e sta ancora infierendo, la complessità delle operazioni per reperire le risorse, distribuirle tra i vari soggetti secondo bisogni difficilmente valutabili e comparabili, ha fatto venire in superficie una miriade di pescecani, lucci e branchi di altri soggetti spinti dalla comune volontà di azzannare il più possibile di tutto ciò che potrebbe attenuare il divario dei rischi e dei disagi se distribuito secondo criteri di equità.

Non possiamo ad oggi valutare con precisione gli effetti economici e sociali della pandemia. Quello che possiamo dire con certezza è che dopo l’evento gli Achilli correranno più veloci e le tartarughe più lente di prima, sia che la gara si svolga tra persone o famiglie o aziende o intere comunità. E purtroppo a questo livello si stanno già levando arbitri che con la scusa di difendere le povere tartarughe riescono a vincere la loro personale corsa al potere.

Commenta per primo

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*