Secondo Wittgenstein, quando c’è disaccordo su un’opera d’arte, sul suo valore estetico e su ciò che effettivamente comunica, si ha un’occasione preziosa per tentare di chiarificare il nostro modo d’intendere l’esperienza e il giudizio estetici. Che si tratti di questioni di gusto o di dubbi sulla comprensibilità, ciò che fa problema sono gli effetti di un’opera d’arte su di noi.
C’è chi ha tentato di elencare i sintomi dell’estetico: Nelson Goodman ne individuò cinque (densità sintattica e semantica, pienezza relativa, esemplificazione, riferimento multiplo o complesso); più recentemente, Ramachandran ha elencato dieci “universali artistici” ed ha ritenuto di poter verificare le proprie congetture attraverso un’analisi empirica dell’esperienza percettiva (tra i suoi “universali”, l’iperbole come superstimolo, il raggruppamento percettivo, il contrasto, la simmetria, la ripetizione).
Tentativi come questi, nel caso di Ramachandran palesemente riduzionistici, vorrebbero aiutarci a discutere sui motivi dell’esperienza estetica, ovvero del nostro attribuire qualità estetiche; ma non ci aiutano a stabilire cosa possa voler dire comprendere o capire un’opera d’arte.
Il termine comprensione risulta peraltro equivoco. Non è solo questione di codici e di linguaggi condivisi. Posso leggere dieci volte i Nomoi di Platone o una tragedia di Shakespeare ed avere dieci volte comprensioni diverse, anche se leggo con la mediazione della stessa traduzione: parziale restituzione di isoglossa che vela e mi rivela qualcosa… L’originale, forse? Ma l’originale propriamente non mi è accessibile, se c’è soltanto l’unicum delle integrazioni. Il fatto è che l’opera d’arte, letta o vista, richiede di essere integrata più che semplicemente compresa. Posso dire di aver compreso la Gioconda o un affresco di Giotto, solo perché ho studiato e compreso l’ambiente in cui sono stati prodotti, la biografia dell’autore e i codici che organizzano la composizione? Posso dirlo anche se tutto ciò è accaduto vedendo soltanto una riproduzione fotografica dell’opera d’arte in questione? Se non posso dirlo, cosa comprendo delle opere d’arte semplicemente studiando sui libri la storia dell’arte? Non ho davvero alcun vantaggio rispetto a chi può vedere certe opere d’arte direttamente, senza avere alcuna cognizione di storia dell’arte? Ma che dire se chi vede direttamente, vede opere in gran parte restaurate (chi può dire quanto accuratamente?) o, nel caso delle architetture, maestose rovine? Insomma: dove sta la comprensione?
Non può stare soltanto nello scorrere frettolosamente le sale e i corridoi di un museo, dedicando mediamente mezzo minuto ad ogni opera esposta. Ma propriamente la comprensione non sta da qualche parte, né arriva ad essere definitiva.
Leggo il Prometeo di Eschilo in italiano, assisto ad una sua messa in scena in un teatro chiuso e mi soffermo davanti al Prometheus di Gustave Moreau: l’esperienza estetica è solo in parte riconducibile a ciò che so e capisco di ciò che vedo, a ciò che l’artista stesso poteva immaginare come contesto per la sua opera e a ciò che posso riferire verbalmente. Eppure, poter dire o ascoltare qualcosa relativamente a un’opera d’arte rende più complessa la mia esperienza estetica, la relazione ogni volta unica con quell’opera.
Tornando finalmente all’arte contemporanea, non riesco a chiarificare il senso dell’esperienza estetica con le nozioni di capire e comprendere. Rinunciando ad ogni pretesa di elaborare a tavolino confini e precetti su cos’è arte e cosa non lo è, preferisco dire che non ho un’esperienza estetica se non sento un pensiero echeggiare in ciò che vedo, se non mi sento coinvolto attivamente in un’opera d’integrazione estetica, se non sono in qualche modo rapito e attratto da forme e colori, se non entro per così dire in risonanza con l’opera.
Il fatto di non entrare in risonanza può dipendere dall’opera o da una mia incapacità di risuonare. Devo essere in qualche modo artista per integrare un’opera d’arte, ma non è uno scandalo se non riesco ad integrare tutte le correnti e gli artisti di cui vengo a conoscenza. Servirebbe sforzarsi di sentire qualcosa? Non c’è d’altra parte alcun modo di sancire modelli d’integrazione e di risonanza autentica e validi per chiunque.
C’è esperienza estetica laddove c’è una risonanza ben riuscita. Questa non può essere prescritta né indotta attraverso l’esplicitazione verbale di codici e contenuti. Si possono suggerire condizioni, pensieri e modi per comunicare una risonanza, sperando che l’interlocutore ne abbia il presentimento.
Ma cosa succede quando tentiamo di con vincere qualcuno che una certa opera è davvero un’opera d’arte? Ci muoviamo ancora nel linguaggio, in un codice entro cui le opere d’arte non possono essere ricondotte ed esaurite. Vorremmo mostrare perché la pensiamo in un certo modo. Vorremmo entrare in risonanza con il nostro interlocutore attraverso la mediazione di un’opera d’arte. Ma proprio l’esigenza di isoglossa, che pare profilarsi, segnala che abbiamo sempre bisogno di traduzioni, di trasposizioni e di metafore linguistiche e, dunque, che la relazione estetica sopporta inevitabilmente molteplici mediazioni e che una isoglossa in senso compiuto non c’è mai.
I confini dell’estetico sono sfumati e, a quanto ne sappiamo, Homo sapiens demens estetizza da sempre anche la violenza: i nostri molteplici livelli di codifica e la nostra ambiguità, che la produzione estetica restituisce opacamente per vie non solo linguistiche, si sottraggono almeno in parte a ciò che possiamo comprendere, ovvero capire vedere e dire a tutto tondo e senza ombre.
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