UN EROE ANTICO E FRAGILE di Giovanni Commare

La vita umana non fu mai più felice che quando

fu stimato poter essere bella e dolce anche la morte,

né mai gli uomini vissero più volentieri che quando

 furono apparecchiati e desiderosi di morire

per la patria e per la gloria (G. Leopardi)

 

La morte di Lorenzo Orsetti, Orso, ci ha fatto sentire in colpa, quando non vigliacchi, noi impegnati a cambiare lo stato delle cose. Lorenzo era morto in Siria, a Baghouz, combattendo nelle fila delle milizie curde YPG contro i tagliagole dello Stato Islamico. Un figlio era morto combattendo una battaglia che avremmo dovuto combattere noi padri. La sua morte poneva a tutti una domanda radicale: Cosa sei disposto a rischiare per ciò in cui credi? E obbligava a confrontarsi con la sua figura che col passare dei giorni assumeva la dimensione dell’eroe. Partito solo e sconosciuto, era stato adottato in tutta la sua carica simbolica da chi gli poteva essere fratello/sorella o padre/madre. Abbiamo bisogno di eroi, è evidente. Eroe è chi diventa un simbolo in cui ci si possa identificare.

Chi era Lorenzo? Il nome gli era stato dato dai genitori in onore di Don Lorenzo Milani, il prete di Barbiana. Per una compagna di scuola, al Liceo artistico era uno attivo nelle occupazioni, ma non impegnato nella politica, un ribelle forse, soprattutto nei comportamenti personali. Per un giovane che lo aveva frequentato quando già lavorava, Lorenzo era uno che voleva essere libero e vivere intensamente e per questo aveva avuto qualche noia con la polizia.

L’assemblea di amici e compagni che per ricordarlo si è riunita in una Casa del popolo di Rifredi, il suo quartiere, è stata un’occasione per conoscerlo meglio. Il ricordo è diventato inevitabilmente celebrazione, così come il suo ritratto ha assunto sfumature diverse nelle varie testimonianze. Lorenzo era Tekoşer, il combattente, eroe e martire nelle parole del rappresentante dei Curdi. Era il figlio, per i genitori che soffrivano la tragedia della perdita. Essi apparivano consolati, per quanto possibile, dalla presenza di tante persone che onoravano e amavano il loro Lorenzo. Erano orgogliosi delle sue scelte. Per il padre, Lorenzo era uno che non accettava compromessi e lui padre aveva imparato dal figlio questa radicalità. Non si tratta di fare riforme per rendere sopportabile questa società o di fare qualcosa per l’ambiente, ma di cambiare sistema di produzione. È stato commovente sentirgli dire che il figlio aveva insegnato ai genitori come si dovrebbe vivere e aveva lasciato loro in eredità i suoi ideali.

Per l’esponente di un Centro sociale, Lorenzo era un militante antifascista all’interno della tradizione internazionalista. Ma un amico è intervenuto subito per contestare: «Orso non si può definire militante, perché non ha mai militato in nessuna organizzazione, neanche in un centro sociale. Semmai un militante del pensiero, perché pensava in modo radicale e non aveva paura dell’illegalità. Era radicale come persona, perciò nessun partito e nessun movimento se ne può appropriare. Partendo aveva dovuto lasciare un cane, ma un cane che non aveva mai avuto un collare, un cane sciolto come lui». Nessuno degli amici sapeva della sua scelta: aveva detto che andava a fare il cuoco in Germania.

Per un’amica, Lorenzo viveva a Firenze un profondo malessere, perché aveva sperimentato quanto difficile fosse rompere col mondo borghese: qui non era possibile fare la rivoluzione. Laggiù, partecipando alla lotta dei curdi per la libertà, aveva potuto finalmente essere se stesso. La madre infine lo avrebbe detto con parole emozionanti: in quella lotta suo figlio era fiorito e aveva trovato pace, forza e gioia.

Questo, ognuno lo poteva riscontrare nelle pagine che Lorenzo aveva pubblicato su Facebook con lo pseudonimo di Orso Dellatullo: veri e propri reportage dalle zone di combattimento, scritti con la semplicità e con l’orgoglio, mai retorico, di chi sa che ciò che sta facendo è giusto. L’orrore della guerra è presente, ma emerge soprattutto il carattere buono di Lorenzo, che spesso fa i conti con se stesso: «Ripenso ai limiti che avevo, e a come questa lunga strada intrapresa in Rojava mi abbia aiutato a superarli».

Della generosità di Lorenzo è prova l’intervista, che un paio di settimane prima di morire a Barghouz, ha rilasciato a un sito rosso-bruno, cioè di quei fascisti ambigui camuffati da anticapitalisti. Lì si è lasciato invischiare in una discussione con una bestia fascista che gli dava di “zecca” e “feccia rossa” e infine auspicava che ISIS lo facesse fuori. In quell’occasione Lorenzo, respinto l’epiteto offensivo, precisa di non provenire da ambienti di sinistra o centri sociali: «Io non sono rosso, sono anticapitalista». Dunque, si colloca fuori dalla tradizione comunista e sceglie quella anarchica. È coerente quando motiva la sua scelta di condividere la lotta dei curdi perché convinto degli ideali che la ispirano: costruire una società più giusta e più equa, l’emancipazione della donna, la cooperazione e l’ecologia sociale, la democrazia.

Per definire un profilo di Lorenzo non si può prescindere dal testamento, cioè da come vorrebbe essere ricordato: difensore dei più deboli, fedele agli ideali di giustizia, eguaglianza e libertà. Il testamento esprime innanzitutto la forza e la sicurezza di un uomo consapevole di essere impegnato in una lotta in cui sa di poter morire e per ciò parla a chi resta. Nel momento in cui registra il messaggio e dice “sono morto”, si colloca al di là della morte. La forza del messaggio sta nella serenità di chi ha messo ordine nella propria vita e le ha dato un senso che appare immodificabile. Nel testamento la vita è perfetta. Non manca l’esortazione a chi resta: «Per cambiare il mondo bisogna vincere in ciascuno di noi individualismo ed egoismo ed essere disposti a dare la propria vita per il prossimo». Qui davvero Lorenzo Orsetti sembra Lorenzo Milani, che non ha imbracciato il fucile ma ha fatto scuola. Che un giovane abbia questo coraggio e questa serenità ci colpisce. Anche se subito avvertiamo che la forma non è nuova: ce l’hanno riproposta tante e tante volte le televisioni facendo eco alla propaganda raffinata dei terroristi islamici del nuovo millennio, contro cui Lorenzo è andato a combattere e a morire. E anche dall’altra parte, non lo dimentichiamo, c’erano altri giovani europei disposti a diventare martiri per quell’orrore giustificato con la fede (l’aberrazione a cui portano le religioni). Certo, solo il mezzo è comune, il messaggio è opposto, come una scelta di vita contro una scelta di morte, perché opposta è la forma del cambiamento che si vuole: libertà contro oppressione. I fanatici, vigliacchi massacratori di inermi, in un certo senso ci hanno sfidato e Lorenzo è come se avesse letteralmente raccolto la sfida.

Il testamento più che i partigiani o i guerriglieri del secolo scorso, ricorda gli internazionalisti dell’Ottocento che andavano a combattere per la libertà degli altri popoli. Lorenzo si è scelto la sua patria e la sua rivoluzione, il Rojava, per cui è stato bello morire, col sorriso sulle labbra. Ma c’è una parola in quel messaggio assolutamente contemporanea: “successo”(«La mia vita resta comunque un successo»), il contrario di “fallimento”. È morto facendo quello che riteneva giusto, ma ha evitato anche il fallimento di chi si perde nell’anonimato di una vita di compromessi. Un eroe antico, e fragile.

Fragile come il contesto politico in cui si colloca la sua scelta. La lotta dei curdi del Rojava si svolge, in questa fase, sotto la protezione degli Stati Uniti. Ai quali certo interessa più lo smembramento della Siria per ampliare il loro spazio d’azione in Medio-Oriente che favorire lo sviluppo del confederalismo democratico nel Rojava. Quando si passa dal piano degli ideali alla proposta politica le cose si complicano ed è inevitabile che sia così.

Nei territori liberati del Rojava Lorenzo vedeva prefigurata quella «società umana e fraterna, senza stato, soldati, denaro, padroni, senza poliziotti, senza galere e senza sfruttatori, predicata dall’anarchia, dove tutti si lavora alla produzione di cose utili, e vivere veramente la nostra breve esistenza, senza odio, paura, preoccupazioni per il domani».

Non sono le armi in pugno a generare gli eroi, ma il valore che una comunità può riconoscere alla loro lotta. Eroismo è l’opposto di egoismo e questo consente a ognuno di scegliersi la parte nella lotta secondo i propri talenti. Coraggioso è chi riesce a fare anche delle proprie debolezze una forza. Perciò accompagniamo nell’ultimo viaggio Lorenzo Orso Tekoşer, la sua bara coperta da uno stendardo delle milizie YPG e dalla bandiera nera e rossa dell’anarchia, rendendo onore al combattente per la libertà e piangendo il ragazzo che non c’è più. Lunga vita ai ribelli!

Commenta per primo

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*