(Acquerello di Silvana Russo)
Dal centro al cerchio e sì dal cerchio al centro
Che vado a dire stasera di Alberto che non abbia già detto o che a Santa Croce sull’Arno già non sappiano? Gli antichi interrogavano Virgilio per sapere cosa fare o cosa dire, aprendolo a caso. I cristiani, di più i protestanti, allo stesso scopo aprono la Bibbia. Io ho pescato nella memoria un verso di Dante. Dante è o era di tutti, e ogni suo verso è un distillato di sapienza. C’è un Dante che vive o viveva nell’anima del popolo italiano, più nell’anima dei poveri e dei contadini che in quella dei borghesi e dei cittadini, il Dante che per esempio percorre i versi del vostro Beìni, quello zio Milio del Pozzolini che spargeva rime e puzzo di sigaro. Allora ho pescato nella Commedia ed è venuto fuori il verso Dal centro al cerchio e sì dal cerchio al centro. Bene, direte voi, e che c’entra? C’entra, c’entra… o meglio, mi pare che c’entri.
Lo sapete tutti che questo nostro Paese è poco unitario: è poco unitario perché lo Stato italiano è nato da poco e forse non ha ancora superato il periodo di rodaggio. Ha ancora qualche tagliando da fare. Ma forse non è questione di tagliandi e una unità compatta non si raggiungerà mai: non si raggiungerà mai perché questo piccolo lembo di terra è da secoli casa di popoli diversi, di migranti e meticci che sono sempre venuti da ogni parte del mondo, portando con sé i propri lari, casa di invasori che si sono assimilati o sono stati assimilati con molta lentezza e sofferenze, casa dove si sono parlate e si parlano lingue diverse, dove persino le cucine domestiche sono diverse, dove per ogni oggetto o concetto ci sono parole diverse, e chi dice ‘naca’ e chi ‘culla’, chi ‘ragazzo’ e chi ‘guaglione’, dove una volta un comico tirò fuori 15 diverse parole regionali per dire ‘ceffone’. L’Italia dalle molte vite e dai mille volti, l’Italia del Nord, del Centro e del Sud, ma anche l’Italia delle cento città, dei villaggi e dei borghi, l’Italia dalle infinite coloriture geografiche e dalla cultura che incrocia storia e geografia. Quando ai padri del Risorgimento il progetto unitario miracolosamente riuscì, uno dei primi compiti che si doveva assolvere era quello di fare gli italiani. Allora De Sanctis s’immaginò che l’anima degli italiani si dispiegasse in una letteratura che verso quella superiore unità marciava, e scrisse velocemente la sua Storia, dimenticando, per distrazione o per scelta consapevole, tante fughe eccentriche. E non so più quale ministro inventò la pubblicazione ‘nazionale’ degli scritti di alcuni grandi fondatori e per così dire garanti dell’Unità d’Italia. Dovevano essere pochi, per non confondere la testa di un popolo a maggioranza ignorante e analfabeta. Si cominciò bene, con Galilei. Ma quando si passò a Dante, Petrarca e Boccaccio, la nostra fragilità organizzativa e il nostro curriculum filologico ci esposero, se non al ridicolo, a qualche ironia del perfido straniero. Ma l’idea stessa intanto camminava e suscitava dibattiti accesi e inconcludenti (nei dibattiti accesi e inconcludenti siamo specialisti). E così, col prendere corpo di sogni e anche di incubi nazionalistici, crescevano di numero e di importanza le edizioni nazionali delle opere dei nostri grandi. E fra i grandi si infilavano qua e là anche meno grandi, specie se spinti avanti da interessi locali. Oggi le edizioni nazionali sono centinaia e alcune si sono coperte di gloria. Si discute se siano troppe, anche perché, essendo la torta della cultura sempre più piccola, il titolo di edizione nazionale è spesso solo un onore senza finanziamenti adeguati. L’ultimo a sostenere la necessità di finanziare bene solo pochi grandi è stato il ministro Veltroni. Ecco, vi ho parlato delle edizioni nazionali italiane, per rendervi chiara l’esistenza a livello istituzionale dell’idea che l’identità del nostro popolo sia garantita da alcuni grandi scrittori, pensatori, scienziati, poeti, a cui va dato un posto d’onore nel sacrario della nostra cultura. Quel posto d’onore si chiama ‘edizione nazionale delle opere di’. Un movimento selettivo, meritocratico, a punti, aristocratico, centralistico. Non siamo i soli. I tedeschi si riconoscono in Goethe e gli inglesi in Shakespeare. Ai piedi dei grandi c’è la plebe.
Io, che per vent’anni ho presieduto la commissione di una di queste edizioni nazionali, per esser chiari una di quelle che contano, sono qui a dirvi che non sono d’accordo, che la cultura arroccata in alcune torri d’avorio e in alcune grandi vetrine non mi ha mai convinto del tutto, che ho sempre guardato con tristezza i centri di città con venti, trenta e persino cinquanta mila abitanti senza librerie, e magari con antiche biblioteche private ecclesiastiche serrate agli studenti e ai curiosi, aperte magari a qualche testardo studioso o a trafficanti di antiquariato. E allora dal centro, seguendo il criptico suggerimento di Dante, mi sposto verso il cerchio, e mi accorgo che la periferia è tanto carina e attraente quanto il centro storico. Come è bella la mia periferia, con quest’aria che cambia di color, il mio cuore si sveglia e fa il monello, ecc. Sì, è vero, Leopardi diventa grande se dal borgo selvaggio si sposta al centro e gente come Nietzsche si accorge che è un gigante europeo; ma è proprio così? O Leopardi è grande anche perché cova sempre dentro di sé e alimenta l’immagine di una povera Silvia di paese, e dentro di sé fa fermentare, coi miti degli eroi di Maratona, il canto notturno di un carrettiere?
Allora mi è sorta nella mente un’idea strana e peregrina: l’ ‘edizione comunale’ dei nostri autori, diciamo autori per non montarci la testa e dire classici, visto che i posti a sedere nella sezione classici sono già tutti presi. L’edizione comunale: che bello! Il contraltare dell’edizione nazionale! Il deuteragonista sapiente e potente di don Chisciotte e di re Alboino, il servo vivo e procace che insegna a vivere al padrone pulito e insipido. Lo devo dire? Il basso avverso all’alto? Diciamo il cerchio che assedia il centro e gli porta vita, come il contadino portava nei mercati medievali i pastosi fagioli borlotti e le grasse oche vive.
Dai dai, per vie traverse e ambagi sono venuto al punto. Alberto, la cui ombra ci ha stasera qui richiamati, è uno che volò fuori dal nido, e seguendo il modello di una storia millenaria degli intellettuali, dalla remota periferia è andato verso il centro, perché è il centro che conferisce gloria, onore e onne benedizione. Shakespeare va da Stratford on Avon a Londra, Orazio da Venosa a Roma, Agostino da Tagaste a Milano, Omero da Smirne al mondo, Leonardo da Vinci a Firenze, a Milano, alla corte di Francia… Anche Alberto abbandona il nido e punta a Milano, alla capitale di fatto dell’Italia. Ma poi una nostalgia indominabile, dopo un decennio, lo riporta al mondo chiuso e dolorante che lo ha generato, a questa santacrocesità che egli stesso ha cercato con ironia di descrivere e definire, dove c’erano persone vere e guai veri, non i dolori metafisici della marchesa e l’effimero di una cultura catafratta come un carrarmato dei privilegi borghesi, magari pure alleati con o mascherati da progressismo; a questo mondo che puzzava, non solo dei sigari di zio Miglio, ma pure dei liquami inquinanti di imprese coraggiose e fertili di benessere. Fu un ritorno quasi tragico, che mi ricorda quello di Verga da Milano alla Sicilia: un ritorno al sangue, alla sporcizia, alle strade di polvere, un ritorno imperioso, rinunciatario, ma cui non era possibile sottrarsi. Ma fu un ritorno carico di conoscenza, come se l’Ulisse dantesco, diventato esperto de li vizi umani e del valore, invece di andare ad inabissarsi nei gorghi di un mare cattivo e sconosciuto, fosse tornato per chiudere gli occhi fra i sassi di Itaca. Non conosco Alberto tanto da potere fare pseudo-analisi psicanalitiche: ma non credo di sbagliare molto se vi confesso la mia convinzione che qui, in questo angolo di mondo odiato e amato cercasse una cosa che pudicamente occultò in pubblico e rivelò invece nell’ombra di conversazioni private: l’umanità. Era la stessa cosa che aveva sempre cercato con qualche delusione nel Grandevetro. A questo proposito permettetimi di leggere un passo, a voi noto, sul senso delle iniziative culturali locali:
Le riviste culturali nascono soprattutto in provincia, dove le invidie, le frustrazioni e la bassezza sono il terreno più fertile per la loro coltura… Perché si fondano riviste di questo genere? Chi ci scrive? Chi le legge? Nella maggior parte dei casi le persone che le fondano sono anche quelle che scrivono gli articoli, che vogliono far sentire la loro voce e tramite queste pubblicazioni vi riescono. Chi le legge, poi, è anche peggio. Nella maggior parte dei casi sono amici, parenti, conoscenti, che fanno l’abbonamento alla rivista, leggono l’articolo dei loro conoscenti e spesso non leggono altro. Così, il più grande rischio delle riviste culturali diventa quello di divenire solo uno strumento di circolazione di idee e di opinioni all’interno di una cerchia elitaria, e di vivere la loro più o meno lunga esistenza lungo un tracciato di un circuito chiuso.
Ma non per questo sono da buttar via:
Anzi, esse svolgono una funzione importantissima. Proprio perché nascono da un onesto particolare, questi periodici rispondono a esigenze specifiche che i grandi mass media, come la televisione, i quotidiani più diffusi, i quotidiani locali, non possono soddisfare. Mentre giornali e televisione hanno una dimensione di massa, le riviste culturali hanno una dimensione più ristretta e specifica. Inevitabilmente, perciò, hanno anche una vita più difficile e travagliata, ma è giusto che sia così, che rimangano dei punzecchiatori utili e che non si trasformino in enormi contenitori inutili… Se guardo indietro, mi accorgo che la mia esperienza personale è stata scandita, molto di più che dai libri, dalle riviste. Non quelle alla moda o quelle ideologiche, ma piuttosto quelle minori, come quelle di fumetti, un esempio classico è Linus. Forse sta proprio qui la forza di queste riviste che vivono ai margini.
La faremo l’edizione comunale delle opere di Alberto? Riusciremo ad acquisire la sua storia alla storia della sua comunità primigenia, della sua piccola patria? Siamo qui, pronti alla prova, consapevoli che le possibilità di una sconfitta sono ben superiori a quella di una vittoria, ma decisi a non arrenderci. A non arrenderci se voi sarete al nostro fianco. Una cosa è certa: che chi vi parla non è disposto a trattare chi sta in periferia con metodi arrangiati e veloci, con la sufficienza di chi sa cosa vale davvero e cosa no. I grandi, i mediani e i piccoli, tutti hanno diritto alla loro dignità umana e culturale. Finché avrò vita e forze, finché potrò dedicare un po’ del tempo che mi resta ad Alberto, e non solo per avere scoperto che zitto zitto mi voleva bene, tratterò i suoi scritti come tratto quello di Francesco Petrarca. Il libro che stasera avete in mano, che Marco ha curato con rigore e amore, che io ho voluto controllare pagina per pagina come un cane da guardia, anche se non ce n’era bisogno, credo a ragione che di questi intenti sia una prova e un esempio da seguire.
(Biblioteca Comunale “Adrio Puccini”, Santa Croce sull’Arno, 25 ottobre 2018: Presentazione di Mi ritorni in mente nell’ambito della rassegna Ottobre un mese Bibliodiverso per leggere in Toscana )
Commenta per primo