Diario dell’11 gennaio
Piccoli gruppi di studenti iniziano a comparire sul ponte di Santa Trinità già alle 7.30; hanno i loro zaini pesanti sulle spalle, le mascherine, camminano piano. Uno studente appoggiato alla spalletta mi saluta calorosamente: eppure, quando gli chiedo il nome, quasi mortificata di non riconoscerlo dietro la mascherina, scopro che non è nemmeno un mio studente… ma ci tiene a dirmi chi è e che classe frequenta. In quel momento, sento che allora c’è un sentimento comune che ci unisce: quello d’un’appartenenza ad una comunità che è stata, ed è, fortemente minata, e che resiste, sì, ma sta pagando all’emergenza un prezzo altissimo. I colleghi che incrocio al bar, appaiono un po’ straniti ma contenti, anche se sembrano dissimularlo quasi per scaramanzia: non sembra vero, speriamo duri. Un’umanità, un mondo di relazioni, che piano piano prende le misure dei corpi, si riabitua, sembra muoversi a tentoni in uno spazio condiviso che pare ricomparire e ricomporsi da lontano. Le regole sono rigide, distanze, permanenza nelle aule, limitazioni agli spostamenti. Eppure i ragazzi che entrano in classe alla prima ora riempiendo via via i banchi monoposto nuovi di zecca sono sempre loro: allegri, chiassosi, parlano tra loro mentre accendo il computer, tanto che li devo zittire per iniziare la lezione vera e propria. In DAD non succedeva mai, c’era un silenzio raggelante, dietro la trincea delle videocamere e dei microfoni spesso spenti. Cadono le ultime riserve: la scuola è questa, pur con le mascherine, le regole, le restrizioni.
La Toscana è tra le poche regioni ad aver riaperto le scuole superiori. Un segnale positivo, forte, di rilancio della formazione e della cultura in una Regione in cui la pandemia, se forse ha colpito meno duro che in altre sul piano dell’impatto sanitario, ha falcidiato pesantemente sul piano economico, facendo collassare settori legati all’arte e al turismo: da quello di massa – quella “monocultura del turismo” che ha sicuramente aspetti deprecabili – fino al turismo più qualificato e al turismo linguistico, ben presente soprattutto nel capoluogo; e dove la persistenza di musei, teatri, cinema chiusi ha un impatto vistoso sul tessuto delle relazioni urbane, oltre che sulla vita concreta di tante persone. Sicuramente non sono mancati politici locali che, fin dalla tarda primavera scorsa, si erano pronunciati pubblicamente e spesi, nell’ambito delle proprie competenze, per la ripresa dell’attività didattica in presenza mostrando una sensibilità ben diversa rispetto ad altri governatori regionali; e lo stesso Giani ha più volte ribadito l’urgenza di riportare all’interno dei loro istituti gli studenti delle scuole superiori, implementando trasporti e vigilanza (non senza ritardi, magari, ma alla fine è stato fatto). Ma certo la giornata odierna è anche il risultato di una forte mobilitazione delle società civile e nella fattispecie di “Priorità alla scuola” che, dalla prima manifestazione pubblica il 23 maggio, occasione che ha riempito una piazza vera non virtuale e ha finalmente riconvertito, dopo i mesi spettrali del lockdown, pietre e palazzi della nostra città d’arte in una “polis” di cittadini, non ha mai abbassato la guardia. Basta “diritti l’un contro l’altro armati”, i diritti sono un diritto, non una concessione, e, in uno stato di diritto dove non è l’imputato a sostenere l’onere della prova, chi tiene chiuse le scuole deve dimostrare che sono pericolosi focolai: difficile sostenerlo, visti i dati degli screening finora svolti. Piuttosto sulle scuole, che hanno dovuto adattarsi a regole rigide più di qualsiasi altro ambiente e a dispositivi draconiani di quarantene a domino, hanno pesato, lo scorso autunno, le inefficienze del sistema di tracciamento e dei trasporti, adeguati con vergognoso ritardo.
Gli istituti hanno scelto modalità molto diverse per applicare la turnazione del 50%: nel mio liceo, si alternano classi intere con cambio settimanale; in altri, la turnazione scatta a giorni alterni; oppure ogni tre giorni. Più macchinosa e inefficace la didattica perennemente duale con ogni classe dimezzata ogni giorno, a gruppi alterni per garantire più distanziamento. Sicuramente nel mio liceo, ma credo anche in altri istituti, l’adozione di una modalità piuttosto che di un’altra è stata calata dal dirigente, senza una discussione in seno al collegio docenti, l’organo che invece è preposto ad occuparsi e decidere di questioni inerenti alla didattica: fino a che punto le strategie organizzative si possono scorporare dalla loro incidenza sui modi di apprendimento dei ragazzi? Sul loro bisogno di avere un ritmo e una continuità nel loro percorso?
L’emergenza ha prodotto effetti di distorsione autoritaria anche nella gestione delle scuole, avallando un processo già precedentemente avviato.
Inoltre, il rientro tra le pareti delle aule rischia di venire interpretato dai docenti che, pur animati da pie intenzioni, vivono con ansia la chiusura del quadrimestre, come l’occasione per testare davvero il livello di apprendimento dei ragazzi al di là dei feedback ricevuti da remoto, la cui attendibilità è più difficile da accertare; esigenza in sé anche legittima, ma che rischia di tradursi in una vessatoria gragnuola di prove scritte che certo non aiuta gli studenti a percepire la scuola come comunità inclusiva e accogliente, se poi questo si somma alla forte irreggimentazione imposta ai loro corpi.
Per questo alcuni di noi hanno scritto un appello ai colleghi: che si tenga conto delle priorità, dell’imperativo primario di ricreare un ambiente condiviso di apprendimento in cui consolidare conoscenze e competenze; di tener conto che i ragazzi, che già si portavano dietro l’eredità dello scorso anno, per quanto siano stati in questi mesi supportati dalle tecnologie digitali e da uno zelo profuso con generosità da molti di noi per garantire loro una continuità di apprendimento, sono stati tutti relegati ai loro luoghi, e dunque “disuguaglianze”, di appartenenza. Ricordava don Milani, non è equo fare parti uguali fra disuguali. L’auspicio che davvero la valutazione allo scrutinio abbia carattere formativo, non di sanzione, non basta; occorre far di tutto perché tale venga recepita.
Sicuramente questa scuola in presenza non è la migliore possibile, né lo era prima dello stravolgimento in cui siamo immersi dallo scorso marzo; ci sarà davvero da rimboccarsi le maniche e affrontare, uno per uno, tutti i nodi che quest’anno trascorso ha messo a nudo.
Ma per farlo occorre fisicamente confrontarsi. Abbiamo rimesso piede nelle aule, si può fare. Si deve fare.
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