L’articolo è stato consegnato in redazione ad agosto scorso
Ci siamo ancora dentro: l’epidemia sanitaria non è alle nostre spalle. Alle nostre spalle c’è, in Italia e in Europa, la fase più drammatica. La speranza è che non ritorni in quelle dimensioni. La consapevolezza, una maggiore capacità nell’affrontarla. Questa premessa è necessaria per chiarire che quelle che seguono sono impressioni, pensieri scritti sul momento, non analisi approfondite. Tre immagini restano scolpite nella mia mente: le bare di Bergamo, portate via su camion militari perché non c’era più posto nei cimiteri, simbolo anche dei tanti ricoverati negli ospedali, soli, morti e sepolti senza neanche la presenza dei familiari; i medici e gli infermieri impegnati in prima fila, rischiando la vita, alle prese con un virus micidiale e sconosciuto, in un sistema sanitario frammentato e differenziato in venti regioni, depotenziato in questi anni da scelte politiche e finanziarie; papa Francesco che, sotto la pioggia, attraversa una piazza S. Pietro deserta, parla e prega con parole in cui possono riconoscersi anche credenti di altre religioni e non credenti. A differenza di altre volte nella storia, l’epidemia non è interpretata come un castigo divino, nella delusione dei fondamentalisti di ogni credo, bensì come frutto delle azioni dell’uomo. Cosa ci trasmettono queste immagini? La coscienza della fragilità e insieme del possibile coraggio della persona, dell’unicità della famiglia umana, del bisogno della solidarietà contro l’individualismo egoistico, per vincere le sfide che abbiamo di fronte. In questo nostro tempo, che apre una nuova epoca, le sfide si chiamano dignità di ogni persona, uguaglianza, futuro del pianeta, controllo e riduzione degli armamenti, rinnovamento della democrazia e sua proiezione globale. Ognuna di esse per essere affrontata in modo giusto esige la forza del dialogo e quella di un impegno comune. Le diverse fedi religiose e le concezioni della vita che prescindono dall’esistenza di Dio non devono costituire barriere di ostilità e incomprensione ma, nel rispetto reciproco, occasioni di un confronto che arricchisce e una sollecitazione etica a mettere al primo posto il bene comune dell’umanità. È un impegno che si fonda su valori non sul relativismo dell’indifferenza. Interrogandoci sul senso della vita, su noi e sul cosmo, sia per un credente che per un non credente non vi sono solo certezze ma accanto l’ansia del dubbio: in un credente prevale l’idea che Dio esista, in un non credente la convinzione che Dio non c’è, ma negli uni e negli altri il dubbio non scompare. È il tratto comune della nostra umanità, dei suoi limiti e della sua grandezza, che risiede nel dovere di rendere migliori la convivenza sociale e il mondo di domani. Il futuro non è scontato, siamo noi a scriverlo. Nell’epidemia le disuguaglianze nelle nazioni e tra le nazioni si sono non soltanto viste ma sono cresciute: non è la stessa cosa risiedere in una casa ampia, con terrazzo e giardino, o in un’abitazione dagli spazi insufficienti; avere un’occupazione stabile, uno stipendio che consenta una vita dignitosa o essere precario, disoccupato, lavorare al nero; avere e sapere usare il computer o non disporne, mentre l’attività e lo studio devono svolgersi “da remoto”. Né si hanno le stesse possibilità di guarigione se si vive in un paese del Sud del mondo oppure in Occidente. Povertà e organizzazione della sanità, se pubblica o privata, se legata o no al nostro reddito, incidono ovunque, anche da noi. Prendiamo il caso della Lombardia: ci sarà un tempo per capire le ragioni del diffondersi dei contagi e valutare le responsabilità dei decisori politici. Un aspetto però emerge con chiarezza: in Lombardia si è costruito un modello di sanità che ha posto pubblico e privato sullo stesso piano, concentrando tutto sulla concorrenza tra ospedali, abolendo di fatto la medicina territoriale di base. Il pubblico non è stato messo in grado di programmare e controllare. La sanità privata in genere si è ben guardata da investire nelle rianimazioni, poco redditizie, tanto che in Lombardia, in rapporto agli abitanti, il numero dei posti letto era di gran lunga inferiore a quello della Toscana. I risultati sono sotto i nostri occhi. La competenza delle Regioni nella gestione della sanità non può sfociare nella costruzione di sistemi tra loro opposti e il diritto alla salute e all’istruzione non sono materie da regionalismo differenziato: hanno una finalità universale. Nei giorni più bui dell’epidemia mi ero convinto che sarebbe venuta meno l’opposizione di non pochi cittadini nei confronti della scienza, come si era manifestata nella vicenda dei vaccini. Mi sono sbagliato. Non mi riferisco tanto “al libera tutti” scattato per alcuni a maggio rispetto alle regole di prudenza sanitaria raccomandate dagli esperti o a quanti hanno manifestato, non solo in Italia, contro il futuro vaccino, sostenendo che la gravità dell’epidemia era un’invenzione dei governi. In Alabama dei giovani hanno organizzato i Covid-party: come invitato d’onore un malato, il premio a chi contagiandosi per primo, ne usciva guarito. Qualcuno è morto! Il comportamento più irresponsabile spetta ad autorità politiche come Trump negli USA o Bolsonaro in Brasile, che hanno ignorato la competenza degli scienziati anteponendo il primato del mercato e del profitto a quello della vita. Il Covid-19 non è l’unica epidemia che ha colpito il mondo: è la prima che ha devastato anche l’Occidente. Le altre come Sars, Mers, di cui scordiamo anche il nome, ci hanno appena sfiorato. A cosa è dovuto questo scatenarsi di virus? Al di là delle cause immediate – scarsa igiene nei mercati, abitudini alimentari, promiscuità – ci sono quelle di fondo: l’allevamento intensivo, la distruzione di piante e specie viventi, l’inquinamento. Gli scienziati ci dicono che lo scioglimento di ghiacciai, causato dall’aumento del clima, sta liberando migliaia di virus sconosciuti, che più direttamente incontrano l’uomo. Stiamo distruggendo il pianeta. Tra pochi anni le ferite saranno irreversibili. I mesi dell’epidemia hanno visto l’intensificarsi di guerre e di politiche autoritarie, con la complicità dei media e l’opinione pubblica concentrata su sanità ed economia. Siria, Libia, Yemen, tensioni tra Stati Uniti e Iran, politiche di Netanyahu contro le ultime speranze di uno Stato palestinese e di Erdogan contro i fondamenti laici della Turchia moderna, repressione del dissenso a Hong Kong, in Egitto, Cile, Bolivia, violenza della polizia contro i neri in città americane. Considerazioni schematiche per sottolineare un dato: per la prima volta nella storia possiamo distruggere noi stessi e il pianeta. Imboccare un’altra strada è possibile, ma occorre l’impegno comune di quanti, credenti e non credenti, concordano sull’esistenza di un’unica famiglia umana e sui vincoli di fraternità che ci legano; sulla priorità del bene collettivo, unica via per garantire anche quello dei singoli; sulla centralità dell’ecologia che deve guidare lo sviluppo e la quotidianità della vita sociale, orientando, come chiedono i movimenti di giovani nel mondo, una rivoluzione non violenta; sul valore assoluto della dignità della persona; sul contributo della scienza; sul disarmo progressivo e la costruzione della pace. Tutto questo nel segno della libertà, democrazia, responsabilità, perché nessun regime autoritario promuove uguaglianza e liberazione. Io lo chiamo nuovo umanesimo ma ciò che conta non è il nome. Sono i valori che lo animano, l’etica che lo sostiene, la capacità di renderlo un progetto condiviso, che ci fa incontrare superando le frontiere.
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