Michele Feo, Térata cioè cronica della marca di Dania Vespasiani

Il divo Augusto Vespasiano fu un grande imperatore. È sua la lex de imperio, nella quale i moderni trovarono la legittimazione del potere assoluto come potere elargito dalle istituzioni rappresentative. Fu lui a edificare a Roma il Colosseo. Furono suoi alcuni miracoli compiuti in Egitto per pietà o inventati per dimostrare che il potere deve essere filantropico. Ma con tutti questi e altri meriti Vespasiano è passato alla storia nella tradizione popolare solo per avere promosso nelle città la creazione degli orinatoi pubblici, detti poi con eufemismo appunto vespasiani. Ora anche questo merito sta passando nel dimenticatoio, perché i vespasiani esposti sono stati aboliti, sradicati, distrutti. Non credo che ciò sia avvenuto per virtù di una legge specifica, ma il fatto è che sono spariti dappertutto, come per una conventio ad excludendum, o per una moda, o per una ondata di puritanesimo e di senso del decoro. Non so altre città, ma Pisa doveva avere coltivato una particolare attenzione a questo chiamiamolo arredo urbano. Se ne può vedere una fotografia che lo glorifica in piazza Carrara, dietro la chiesa di S. Nicola, opera di Nicola Pisano, s’intende la chiesa non l’orinatoio (vd. E. Tolaini, Scritti pisani, Pisa 2012, p. 95, fig. 4). Con tutta sincerità si deve riconoscere che è una bella opera, aggraziatamente ovoidale, con due entrate frontali ai due poli, fiancate e tetto merlettati e quello spazio vuoto tra fiancata e cupola, che ha fatto la gioia del pittore e incisore Giuseppe Viviani. È nei vespasiani di Viviani che si dà convegno una umanità a suo modo felice, lieta di rendere gli onori dovuti al basso, pur nascondendolo, e di mostrare la testa, ammassandosi in promiscuità sociale di ufficiali, operai, preti, donnine allegre, tutti ombreggiati da alberi fronzuti su cui tubano piccioni innamorati. Il vespasiano di Viviani era anche un tazebao sul quale si depositavano le proteste e gli «abbasso! » indiscriminati rivolti al fascio littorio, alla guerra, alla camorra, e pure a Maccari e a Morandi, nonché all’uomo in quanto tale: con un solo, timido e seminascosto, «evviva!» a un oggetto il cui nome intero è invidiato dalla prospettiva e il cui residuale frammento suona [ ]PA. Nessun incolto pisano avrebbe dubbi filologici davanti alle possibilità ricostruttive di questa parola. Ma nessuno rimpiange più i vespasiani e nessun urbanista più osa riproporli. Strano: perché erano utili, civili e gratuiti (e, almeno quello di piazza Carrara, anche nobile). Non è che i bisogni animali degli uomini e delle donne siano mutati. Sicché, aboliti i vespasiani gratuiti (e anche i cessi a pagamento), ecco orde di turisti fuori albergo esser prese da irrefrenabile sete di caffè espressi e degustarli solo nei bar disposti ad aprire loro le nascoste cellette solitarie. Ma non sono pochi quelli che non si adattano a pagare questo sia pur modesto pedaggio, e per amore o per forza, ricorrono a metodi e strategie più elementari. Strade poco frequentate, absidi di chiese medievali, basamenti di statue, archivolti e corti appartate si sono a tutti gli effetti trasformati in orinatoi pubblici, la cui identità è certificata da un odore di cloro, che resiste anche nelle stagioni piovose. Sarà forse il caso di riproporre la presenza dei vespasiani nelle città, bandendo concorsi per chi li fa più fantasiosi?

Ti facciamo un c. così

Si intitola Cancellare le tracce un libro (Milano, Rizzoli, 2007) del pubblicista conservatore Pierluigi Battista, uomo non privo di ingegno, come è nell’uso di dire con indulgente ipocrisia. Cancella le sue tracce con la coda il leone, secondo le favole degli antichi enciclopedisti, per non lasciare orme ai cacciatori. Se lo fa per legittima autodifesa l’animale generoso e magnanimo per eccellenza, figurarsi che non lo facciano bestie molto meno nobili come svaligiatori di case di vecchi pensionati e assassini di imprudenti ragazzine. Ma qui si parla di tracce cancellate dal fior fiore dell’intellettualità italiana. Alla fine del fascismo non si sono aperti solo orizzonti di libertà e di democrazia, ma anche processi, vendette, regolamenti di conti. È stato un altro e lungo otto settembre, un fuggi fuggi, in cui ognuno ha cercato di salvare la pelle, spacciando la propria salvazione per la salvazione dei superiori destini dell’umanità. Spesso, poiché i peccati erano stati endemici, la partita si giuocava nel decidere chi avrebbe giudicato chi. Quando sul podio del giudice, a giudicare politicamente il professore tiranno che lo aveva bocciato all’esame, siede l’alunno asino che è già stato bocciato da quel professore, può capitare che ne esca una condanna tendenziosa, pur se ben motivata. È comprensibile allora che il tal professore cerchi di correre ai ripari, cercando di non far acquisire agli atti la prova della bocciatura. E quale migliore via che far sparire il documento stesso della bocciatura? Sono stati manipolati concordemente gli elenchi delle spie, sono state sfilate dai carteggi le lettere più interessanti, alcuni fascicoli della polizia sono stati lavati, peani e ditirambi sono spariti dalle biblioteche, collezioni di riviste sono di colpo diventate mutile, si sono escogitati i più sottili sillogismi per spiegare questo o quel cedimento: la maschera cartesiana, il nicodemismo, la dissimulazione onesta, il bisogno di famiglia, l’ordine di partito, l’atarassia del dotto e lo sprezzo aristocratico del contingente, finanche la menzogna calcolata. Tra le tecniche di ricostruzione utilitaria del passato e di riordino del proprio salotto ce n’è stata una molto ingenua e molto sciocca, quella di selezionare o far selezionare dagli allievi la propria bibliografia. Articoletti improvvidi, recensioncine adulatorie, scritti innocui in riviste fascistissime, spesso piccoli peccatucci assolutamente veniali, ma che potevano diventare armi nelle mani di perfidi rivali, tutto ciò è stato obliterato dalle bibliografie premesse a biografie, a opera omnia, a miscellanee celebrative. Lo si è fatto ex silentio o dicendo che si sono omessi inessenziali iuvenilia.

E con questa premessa che tocca un nervo scoperto della storia dei nostri padri e maestri, vengo al titoletto di questa nota. Capita anche a chi non si occupi ex professo di queste vicende di imbattersi in opuscoli e articoletti dimenticati o mal cancellati. Allora il probo studioso lo dichiara in pubblico o in privato, magari con qualche incauto sorriso di scetticismo su storie di immacolati antifascismi. È capitato a chi scrive. E gli è capitato, prima di trovarsi davanti a un muro di negazionismo, poi, una volta esibiti i dati di fatto, di sentirsi dire da amici di provata amicizia: Se pubblichi queste cose ti facciamo un c. così.

Mala tempora corrono per la storiografia alla Ranke, wie es gewesen ist, e anche per chi non conosce l’arte del politically correct. Chi racconta cose sgradevoli, viene qualificato come uno che sceglie i documenti che gli fanno comodo. Chi ha negato la Shoa in Austria è stato condannato da un tribunale penale, sostituitosi a quello del dibattito scientifico. E aleggia in Italia la proposta di legge di trasformare in reato opinioni storiografiche ritenute lesive della democrazia. Quale democrazia? (Mi permetto su ciò di rinviare a un mio intervento, Storiografia per legge, in «Leonora», rivista barese scomoda come l’eroina del 1799 di cui portava il nome, e già defunta, I, n° 3, sett. 2014, pp. 1 e 19-20).

Ragazzo negro

Nella scarsa luce di piazza Carrara a Pisa alle 18:30 di una sera di precoce inverno ballava da solo accanto a una fila di macchine ammassate lì giusto per annullare la bellezza di uno spazio graziato da una leggerezza fra post-rinascimentale e pre-illuministica. E mentre ballava canticchiava, non ho capito cosa. Mi ha ignorato quando l’ho sfiorato transitandogli accanto in bicicletta. Quando ero un po’ più in là mi son chiesto, senza preoccuparmi di darmi una risposta, se saltellava per difendersi dal freddo o perché gli riemergevano i ricordi dei ritmi e delle movenze rituali della sua terra lontana.

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