Potremmo definire il romanzo un componimento letterario di tipo narrativo, con struttura e articolazione complesse entro le quali trova spazio un contenuto creativo. Più interessante, a mio avviso, il concetto di antiromanzo, che è un testo narrativo che rifiuta le gabbie proprie del romanzo e cerca di riprodurre le percezioni e le esperienze dei personaggi con la loro frammentarietà e non linearità, chiedendo al lettore uno sforzo nel ricostruire la vicenda nella sua organicità.
Tale definizione è calzante per gli scritti di Cesare Garboli, interprete originale nel panorama della critica italiana della seconda metà del Novecento, sia per la pluralità degli interessi e quindi degli ambiti presi in considerazione – la sua produzione verte su letteratura, teatro, arti figurative -, sia per la ricchezza di tonalità presenti nella sua scrittura, allo stesso tempo acuta e armonica.
Garboli giunge a una forma creativa non collocabile in alcuna cella delle storicizzazioni, trattandosi di un autore capace di amalgamare e intrecciare critica d’arte e letteraria, indagine biografica e psicologica, attenzione filologica ed editoriale. Tali elementi di diversa estrazione si ritrovano puntualmente armonizzati nella sua prosa, soprattutto grazie a una vena narrativa che sembra in grado di raccontare per immagini. Nelle sue pagine abita una particolarissima capacità di trasformare le esperienze di vita e storiche in funzione dell’immaginario.
Gli scritti garboliani nascono prevalentemente per soddisfare un bisogno dell’autore, il quale ritiene che la scrittura presupponga una situazione di alterità, di solitudine, nella quale riflettere sull’argomento da affrontare ma anche e soprattutto su se stessi: la scrittura è ritenuta performativa, ha la capacità di sospendere il presente, riportare nel passato e modificare attraverso la capacità immaginativa quello che è stato, in modo da porre le basi per un futuro diverso.
L’autore nelle sue analisi critiche sembra tendere non tanto a rintracciare in uno scrittore i segni di un valore estetico, quanto invece a raggiungere il centro di quella patologia misteriosa, di quell’incurabile male di vivere che suscita da un lato insufficienza e dall’altro è la radice della produzione letteraria. Garboli ricerca la pulsione primaria che ha permesso di originare un testo letterario e ne indaga il funzionamento, analizzandone le caratteristiche vitali. La creatività originale è la nota distintiva che lo appassiona maggiormente, in quanto lo spinge ad aggiungere a quella produzione la propria voce, in una personale esecuzione artistica.
Si nota una certa predilezione per gli autori del Novecento di cui ha avuto conoscenza diretta e personale, i quali sono stati interlocutori e destinatari dei suoi scritti. Non soltanto, quindi, essi sono stati oggetto di indagine critica, ma potrebbero essere considerati anche allo stesso tempo personaggi di una narrazione fantastica e unica.
Garboli si sente personaggio fra personaggi in cerca d’autore, fa parte di una narrazione unitaria nella quale riesce a svelare, di volta in volta, di scritto in scritto, una piccola parte del sé e a passare oltre seppellendo metaforicamente l’oggetto della propria indagine, l’altro da sé, ritornando costantemente alla ricerca della propria identità.
Non tralascia mai, inoltre, l’importanza di un rapporto diretto e costante con il lettore: le raccolte di saggi di Garboli si aprono costantemente con una nota rivolta Al lettore, al quale si chiede condivisione e si rende conto delle motivazioni che hanno spinto alla produzione del testo, dei criteri, anche editoriali e filologici, utilizzati per la stesura, del progetto che si trova alla base dell’esecuzione.
Leitmotiv della sua produzione è il tema del desiderio, che arriva a intrecciarsi con quello della seduzione e, più in generale, con quello dell’affettività: il desiderio del recupero del sé, che avviene attraverso l’altro, che quindi seduce e col quale si entra in rapporto servile; si ricorda che l’ultima raccolta di saggi progettata da Garboli e pubblicata postuma nel 2005 si intitola significativamente Storie di seduzione. Volontà garboliana è quella di delineare, attraverso la vasta produzione qui raccolta, una sorta di auto/bio/mitografia, un recuperò del sé negli scritti costantemente mediato da un prisma di tipo teatrale e figurativo. Analizzando l’opera, si rileva la presenza di episodi propri della biografia degli artisti sulla cui produzione l’autore si trova a lavorare, i quali si intrecciano quasi inevitabilmente ai ricordi personali, a fatti estrapolati dalla propria biografia; quindi, una partecipazione continua di elementi auto/biografici. Tali fattori hanno un ruolo così importante all’interno delle pagine garboliane da suscitare un quesito la cui risposta risulta imprescindibile per ogni considerazione sulla sua produzione, e cioè se la componente auto/biografica in gioco sia un prodotto dell’attività critica dell’autore oppure la matrice, il motore originario che spinge a scrivere, ad analizzare, a indagare le opere e le esistenze degli artisti. È evidente che questa componente dello scrivere garboliano risulti accentuata laddove oggetto dell’attenzione di Garboli sono artisti conosciuti personalmente e con i quali si è creato un profondo legame affettivo; questo accade principalmente quando egli si trova a parlare di – ma si potrebbe correttamente sostituire l’espressione utilizzata con “dialogare con” – Antonio Delfini, Natalia Ginzburg, Sandro Penna, Elsa Morante, Mario Soldati. Questi artisti sono i protagonisti di Storie di seduzione: la parola “seduzione” e il relativo campo semantico, ricorrenti nelle pagine garboliane, rimandano direttamente a una serie di eventi seduttivi – dal punto di vista culturale, ma non solo – che hanno attraversato la biografia del poeta e anche quella degli artisti considerati all’interno dell’opera, e quindi è possibile affermare che la componente auto/biografica è all’origine di questo scritto composito che scardina le maglie del romanzo e, per le caratteristiche individuate, si configura come un antiromanzo.
In conclusione, si ritiene utile citare una lettera di Cesare Garboli contenuta nel Fondo Pier Paolo Pasolini presente nell’Archivio Contemporaneo “A. Bonsanti”, visionata su concessione del Gabinetto scientifico-letterario G. P. Vieusseux di Firenze e degli eredi di Pier Paolo Pasolini e di Cesare Garboli.
Nella lettera, scritta a Roma il 15 maggio 1973, dopo una riflessione iniziale sulla propria produzione, nella quale si sottolinea significativamente l’importanza della teatralità in quanto possibilità di esprimere ambiguità sul reale e su se stessi – un attore riesce a smorzare la crudeltà del reale, a mostrare se stesso in maniera velata, accorta, e allo stesso tempo a dare vita a un testo, che proprio per questo dipende dalla sua attività – il discorso si sposta sulla relazione che intercorre fra i due artisti. Garboli ammira di Pasolini la vitalità e le scelte estreme, nella vita e nell’arte, lo considera l’unico interlocutore possibile in quanto possessore di una struttura identitaria forte, a differenza dei suoi coetanei, vuoti involucri. La chiusura della lettera è fondamentale per la comprensione degli scritti di Garboli, in quanto restituisce il significato ultimo dei testi, la chiave interpretativa, che si esprime in una ricerca identitaria che non ha mai trovato riposo, che si è spesso ribaltata nel suo contrario, in quanto Garboli si è trovato nella condizione di attribuire un’identità ai personaggi dei propri scritti, proprio nel momento in cui andava ricercando in loro la propria:
«Quanto all’”inesistenza” dei miei coetanei, essendo un fenomeno storico, naturalmente mi ci metto anch’io. Io ne sono un esempio consapevole, reticente e torturato. Privo di padre, sono sempre andato in cerca di padri facendo loro da padre, essendo più figlio di chiunque altro».
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