Cari Amici,
fu un cervello buttato via, e lui buttò via il cervello. Follia della follia.
Vestiva di bianco, tutto bianco, anche le scarpe bianche. Abbastanza alto, quasi esile, capelli neri riccioluti, naso grosso e schiacciato alle narici, occhi neri sempre in movimento: questo era Pancrazio Prestipino, detto Graziuccio, che allora aveva poco più di trent’anni, frequentatore di buon mattino e per tutta la mattina del bar l’Aquila d’oro, in Via Azimonti. Beveva caffè su caffè, fumava sigarette su sigarette. E parlava, parlava con questo o quel cliente del bar, tutti ormai suoi conoscenti e finanche amici. Sapevano molto di lui. Conversavano in particolare di politica. Sosteneva il punto di vista del proletariato, degli operai, dei senza niente, e lo documentava saltando di qua e di là con riferimenti che andavano dalla rivoluzione di ottobre in Russia ai fasci siciliani, dai fatti di Ungheria alle brigate rosse, dai moti contadini della Basilicata al regime democristiano. E giù condanne a destra e a manca e visioni di complotti sempre in atto dello Stato, in combutta con la CIA americana. E tante arrabbiature astratte sprigionate dalla foga del ragionamento. Che nessuno capiva fino in fondo, per quanto tutti riconoscessero intelligenza e passione. Spesso si metteva a sedere sulla panchina sotto gli alberi della piazzetta, senza allontanarsi se non di qualche metro dal bar; le madri con i bambini evitavano quasi automaticamente di passargli accanto, e facevano un giro più largo, strattonando i loro piccoli se si avvicinavano troppo all’uomo in bianco. In seguito le giornate al bar divennero più brevi, diventò più taciturno e a mezzogiorno non si vedeva già più in giro; poi scomparve.
Chi era dunque Pancrazio, detto Graziuccio?
Insofferente con il padre, applicato di segreteria, e con sua madre, che gestiva un negozietto di “Generi alimentari e diversi”, Graziuccio frequentava molto il nonno. Emigrato in Argentina un paio di anni dopo il matrimonio, per quanto avesse già due figli piccoli, aveva presto fatto perdere ogni traccia di sé. Poi era tornato, ricomparendo dopo una trentina d’anni. E nonna Rosina se lo era ripreso. Nonno Lazzaro aveva un portamento fiero e deciso: accentuato da uno sterno prominente che sembrava fatto apposta per sfidare qualsiasi minaccia. Infatti gli avevano presto appioppato il soprannome di Sparam’n’piett, sparami sul petto per il quale era conosciuto, e temuto. Coltivava le sue terre e intratteneva Graziuccio sulle meraviglie della natura, ma non finiva qui la lezione: gli parlava anche del Governo e delle sue malefatte, del sindaco, dei consiglieri e delle loro ruberie, del prete e delle sue puttanate – le chiamava proprio così – e finanche del dottore e delle sue diagnosi sbagliate. Insomma era un oppositore di tutto.
Graziuccio, fresco del diploma di perito agrario, si iscrisse alla facoltà di sociologia a Salerno. E si prese la sua buona laurea. Aveva trovato un ambiente dove il mondo veniva rovesciato come un calzino, e le lotte potevano acquietarsi solo con la rivoluzione. L’università era per lui quasi come il nonno, ma in grande: correvano gli anni ’70 e ’80 in Italia.
Rientrato al paesello, Graziuccio passava le giornate passeggiando in su e in giù dalla piazza alla costa, dove si fermava al bar di don Ciccio Del Buono, e rimuginava e rimuginava, afflitto dal buio del futuro. Suo padre insisteva e sua madre pure: fare i concorsi, fare i concorsi! Sbraitando, li ascoltò. Fece un concorso per guardia forestale. Lo vinse: ma fu mandato a Courmayeur, dove rimase solo un paio di settimane; e se ne tornò a casa perché non si trovava bene, disse, in un paese straniero. Fece un concorso nelle poste come portalettere: lo vinse e fu spedito in un paesino dei dintorni di Biella. Ma anche qui si sentiva un pesce fuor d’acqua e se ne tornò a casa appena dopo un mese. C’era la casa, meno male!
Intanto si avvicinavano le elezioni comunali e per la prima volta la Democrazia cristiana rischiava di perdere il comune. I giovani del posto vennero avvicinati e addomesticati facendo balenare ricompense di vario genere. Anche Graziuccio fu chiamato dal segretario Giacomino Mezzasoma, che gli diede ragione quasi su tutto e gli promise il posto di capo dei servizi sociali. Per quanto lo scudo crociato gli facesse schifo, Graziuccio pensò che forse era per lui la volta buona, e che dai servizi sociali potesse mettersi anche meglio al servizio della rivoluzione. Così smise di fare il critico critico e si diede a fare propaganda per la Dc che, diceva, aveva perso il vecchio pelo e il vecchio vizio. La DC vinse e la promessa fu portata all’incasso. Giacomino Mezzasoma, diventato nel frattempo assessore, rinviava e rinviava, ora con una scusa ora con un’altra. Passarono mesi. Graziuccio, rinchiuso nella sua stanza, beveva e fumava all’impazzata, prigioniero di se stesso e del mondo. Fin quando una sera, verso le sei, uscì di gran carriera, precipitandosi per le stradine e i vicoli del paese. Giunto davanti alla casa del Mezzasoma saltò i cinque scalini, spalancò la porta socchiusa e si trovò nel bel mezzo della sala. La moglie del Mezzasoma era lì e il Mezzasoma anche. Ma era come se non ci fossero. In men che non si dica, la televisione volò a terra con un rombo di bomba, dagli stipi piatti e bicchieri raggiunsero il pavimento con stridulo fracasso, dalle pareti i quadri rovinarono al suolo accartocciandosi. Una seggiola, roteando nell’aria, agganciò il lampadario che cadde tintinnando sul tavolo di cristallo che si spezzò in due inclinandosi a barchetta; e proseguì trapanando con i piedi le due poltrone di pelle, che liberarono piume d’oca che ondeggiavano bianche e inermi nell’aria. Insomma una catastrofe, dalla quale pure si sollevava una sottile polvere eroica. Nel frattempo erano accorsi i vicini e Graziuccio fu immobilizzato; ansimava con la schiuma alla bocca e singhiozzava senza lacrime. Non era ormai che un fantasma. Intanto erano sopraggiunti i carabinieri. La moglie del Mezzasoma fece la sua deposizione e il marito, riemerso dallo sgabuzzino sotto le scale, non seppe dire altro che Graziuccio ce l’aveva con lui e che, temendo di essere ucciso, aveva pensato di salvarsi.
I carabinieri portarono Graziuccio in caserma. Gli chiesero più volte perché aveva combinato quel guaio, ma non ottennero risposta: era come in coma e penzolava dalla seggiola da ogni parte. Fu accompagnato a braccia nella stanza di sicurezza e lì, muto e assente, cadde sul giaciglio proprio come corpo morto cade.
Doveva essere celebrato il processo; ma fu riconosciuta subito l’infermità mentale e Graziuccio ritornò a casa, dove piano piano riprese a bere caffè e a fumare. Non voleva vedere nessuno, neanche la madre, che gli portava da mangiare e veniva respinta appena ritirato il piatto dalla porta.
Poi si rintanò per settimane nella casa del nonno; infine fu ricoverato in una casa-alloggio che era stata aperta sulla strada per l’Acqua Solfata. Stando in mezzo agli altri ospiti sconosciuti si riprese, diventò quasi normale e per qualche tempo fu lasciato libero di frequentare il bar di Via Azimonti.
Poi un tremore diffuso si impossessò di lui. Oggi cammina traballando e staziona per ore su una poltrona con il capo reclinato come se dormisse. Ma non dorme. Così Pancrazio si spegne: essendo stato acceso per poco e di rosso vivo, come le stoppie d’estate.
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