Il poeta fugge disperatamente in canoa. È braccato da ore. Ansima, rema come un forsennato e ogni tanto si volta per sparare velocemente ai gendarmi. La policía nacional risponde al fuoco con raffiche di mitraglia. Pioggia di proiettili in acqua e colpi furiosi di pagaia. Fischiano pallottole da entrambi i lati del río Madre de Dios. Il poeta e il suo compagno sbandano, non riescono a governare la canoa. E là, in alto, le sponde del fiume sono piene di gente che spara e urla. «Guarda. Hanno convinto anche la popolazione. Non c’è proprio più niente da fare», dice il poeta un attimo prima di venir colpito alla spalla. Cade. Il compagno sente la sconfitta, annoda uno straccio bianco al remo e lo sventola. Cessate il fuoco. Gli spari invece aumentano, si concentrano sul corpo accasciato in fondo alla canoa, fino a crivellarlo. Bisogna sempre infierire sui poeti. Così, alla fine Javier Heraud ha ventun anni e diciannove proiettili dum dum in corpo. È il più giovane professore del Perù, ha vinto diversi premi e la sua lirica più famosa si chiama, per l’appunto, El Río. Ha visitato Mosca, la Cina e contestato Nixon nel ’58. Poi, dopo un viaggio a Cuba, è tornato per unirsi alla guerriglia marxista contro la dittatura del generale Pérez Godoy. «Non basta chiamarsi rivoluzionari per esserlo». Da lì la scelta filologica per la lotta armata. «Succede semplicemente che non ho paura di morire tra alberi e uccelli», canta Heraud (perché la tirannia reprime, e non c’è da sdilinquirsi). E poi c’è un tempo per la penna e un tempo per il fucile, i più accorti lo sanno. Ma i poeti son distratti per natura, e il fucile a volte se lo scordano. Come Paco Urondo, che ebbe la sventura di lasciare la mitragliatrice nel bagagliaio il giorno che la sua macchina incrociò una pattuglia dell’esercito. Urondo non era soltanto un poeta. Aveva pubblicato romanzi, era giornalista e sceneggiatore, e nel 1973 era stato nominato direttore del dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Buenos Aires. Poi arrivò la dittatura, e il suo malessere si fece insopportabile. Così divenne montonero, fazione guevarista. «Ho impugnato un’arma perché cerco la parola giusta», diceva. «La realtà che viviamo mi pare così dinamica che la preferisco ad ogni finzione». Fu mandato a riorganizzare la guerriglia a Mendoza, dove la polizia l’aveva distrutta totalmente. «Il poeta deve portare, contro vento e marea, l’esigenza dell’impossibile, opponendola alla moderazione opportunistica della politica». E così fu. Un giorno stava andando sulla sua piccola Renault 6 a una riunione clandestina. Accanto aveva la moglie con la figlioletta di un anno in braccio, e sul sedile posteriore una militante chiamata La Turca. Ma era una trappola. Qualcuno aveva cantato. Appena giunti all’appuntamento, una berlina gli si mise alle calcagna. Ci fu un lungo inseguimento. La pattuglia dietro cominciò a sparare, La Turca rispose al fuoco finché non fu colpita a una gamba. Urondo, il poeta, lanciò la macchina alla massima velocità per le strade polverose di Dorrego, bruciando semafori e gridando alla moglie di riparare la piccola a tutti i costi. Stridevano le gomme, l’auto sbarellava per evitare i colpi. Ma gli inseguitori si avvicinarono mitragliando la macchina fino a farla rallentare. Urondo si fermò davanti al negozio di un elettricista. Ordinò alle donne di scendere dall’auto e mettersi in salvo. Sapeva che non l’avrebbero fatto. Allora fece un gesto definitivo: finse di prendere la pastiglia di cianuro che portava sempre con sé e urlò che se ne andassero. La Turca piagnucolava, con la gamba rotta non poteva fuggire. Urondo fece finta di stare male, si accasciò. La moglie, disperata, ammutolì ma corse fuori con la figlia. La mise in braccio alla prima persona che gli capitò di incontrare e si precipitò dentro al negozio. Sfortunatamente non c’era un’uscita posteriore. La pattuglia arrivò in fretta e non ebbe problemi a catturarla. Fu fatta scomparire nel nulla dalla dittatura, e non venne mai ritrovata. La figlioletta fu immediatamente sequestrata dai militari. Urondo si trovò circondato da un gruppo di soldati. «Dall’altro lato dell’inferriata c’è la realtà. Anche da questo lato dell’inferriata c’è la realtà. L’unica cosa irreale è l’inferriata». Gli sfondarono il cranio col calcio dei fucili. Zoppicando e gemendo, La Turca entrò in un portone, uscì dal retro e prese un filobus al volo, dileguandosi per anni. «Se loro permettono, preferisco continuare a vivere», come diceva Paco.
Roque Dalton aveva studiato dai gesuiti, perciò li conosceva bene. Ne aveva viste di tutti i colori, ma non si fece mai prendere dalla mestizia. Le sue invettive sono sempre marcate da una certa ironia, così come la sua lirica militante. «Non uccidete i preti, popoli che vi risvegliate e vi rendete conto dell’inganno colossale. Al contrario, incoraggiate la loro crescita, ingrassateli uno a uno con premurosa cura. Così poi potrete andare al lavoro in groppa a preti grassi – la benzina costa sempre di più -, o lasciarli legati alla porta del bar. La domenica porteremo i bambini alle corse dei preti, unico gioco d’azzardo che sarà permesso. Ci saranno preti da tiro e da soma, preti da trotto, preti da monta, e avranno le stalle odore di santità. I preti inservibili verranno imbalsamati e venduti come ornamenti da salotto: la tonsura potrà ben servire da posacenere». Già in quegli anni Roque venne in contatto con le differenze di classe e il diverso trattamento riservato ai figli di ricchi. Ma visse il suo tempo con leggerezza. Poi andò all’università di Santiago del Cile, e a sua insaputa iniziò a frequentare i comunisti, che gli piacquero pure. Un giorno intervistò il grande muralista Diego Rivera per una pubblicazione studentesca. Il pittore gli chiese subito l’età e cosa sapesse del marxismo. Dalton rispose che era social-cristiano, aveva diciott’anni e non aveva letto un rigo sul comunismo. Rivera, mai stato troppo diplomatico, gli rispose che era un imbecille da diciott’anni, e lo allontanò all’istante. Roque rimase affascinato, capì che era meglio informarsi, e si mise a studiare seriamente. Dopo un anno tornò in Savador attrezzato con opportuni strumenti ideologici, e cominciò un percorso di lotta. Nel 1960 fu arrestato, ma di lì a poco il dittatore Lemus fu deposto e Dalton liberato con l’amnistia. Arrestato di nuovo nel 1964, agenti della CIA tentarono di convincerlo a collaborare; Dalton rifiutò con sdegno. Dopo pochi giorni un terremoto distrusse una parete della sua cella e gli permise di scappare, facendolo entrare nella leggenda. Entrò anche nel PC salvadoregno e poi nel 1973, quando già era uno dei più influenti poeti del Centroamerica, cambiò nome e abbracciò la lotta armata, divenendone uno dei capi. La sua fortuna ebbe fine quando la CIA cominciò a mettere in giro voci su un suo presunto collaborazionismo, allo scopo di screditare e dividere la guerriglia. Dalton era uscito dal PC perché lo considerava troppo di destra rispetto ai movimenti rivoluzionari; ora che militava nell’Esercito Rivoluzionario Popolare si ritrovava accusato di revisionismo dall’ala militarista, e di essere un piccolo-borghese inadatto all’azione. A questo si aggiunsero le voci calunniose. Gli scontri interni si acuirono, finché Dalton venne processato dall’ERP e condannato a morte come spia degli USA. Il 10 maggio 1975 Dalton fu addormentato e fatto fuori dai suoi compagni. Il suo corpo, lasciato alle intemperie e divorato dagli animali, non fu mai rinvenuto. Bisogna sempre infierire sui poeti. Quello che rimane, però, è un corpo letterario magistrale e ironico, mai retorico neanche quando Dalton tratta i più alti ideali. «È bello essere comunista, sebbene procuri molti mal di testa. È che il mal di testa dei comunisti si presume storico, vale a dire che non cede alle pastiglie analgesiche ma solo davanti alla realizzazione del Paradiso in terra. Così stanno le cose. Sotto il capitalismo ci fa male la testa e ce la strappano via. Nella lotta per la Rivoluzione la testa è una bomba a scoppio ritardato. Nella costruzione del socialismo pianifichiamo il mal di testa, il che non lo fa diminuire, anzi tutto al contrario. Il comunismo sarà, tra le altre cose, un’aspirina grande come il sole».
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