LE DIECIMILA E UNA ITALIA di Moreno Biagioni

Riflessioni per un rilancio della partecipazione e della democrazia partecipativa

Giovanni Arpino, in un suo bel libro, rivolto particolarmente alle ragazze ed ai ragazzi, ci racconta “mille e una Italia”, facendo incontrare Riccio, il piccolo protagonista che compie un viaggio dalla Sicilia alle Alpi, con molti personaggi della nostra storia, inseriti negli ambienti e nei territori in cui operarono (da Savonarola a Machiavelli a Gramsci a Gobetti al padre dei fratelli Cervi …).

Penso che, se ci si volesse soffermare sulle moltissime realtà locali in cui si articola lo stato italiano (città, paesi, comuni grandi, piccoli, piccolissimi, frazioni, borghi, quartieri), potremmo parlare di “diecimila e una Italia”. Si tratta – si tratterebbe, se fosse veramente considerata tale e ci si comportasse di conseguenza – di una “ricchezza” enorme per la vita democratica, in grado di permettere un notevole sviluppo della partecipazione al governo della “res pubblica”.

Piero Calamandrei, nel famoso discorso in cui, a Milano, presenta la Costituzione agli studenti e ne individua le radici nella Resistenza e nel Risorgimento, quando parla degli articoli della Carta Costituzionale che riguardano appunto gli organismi che costituiscono la Repubblica, afferma “Ma questo è Cattaneo!”, proprio perché è il politico e patriota lombardo l’ispiratore di uno Stato federale composto da tante autonomie locali. Certo, ci sono modi diversi di intendere tali autonomie e negli ultimi decenni ne abbiamo visto lo sviluppo in senso negativo, reazionario, con una visione che tende a fare di ogni autonomia una piccola patria chiusa e contrapposta alle altre, con il prevalere degli interessi egoistici locali (la Lega ha portato avanti con grande determinazione un discorso del genere, intriso di intolleranza, di razzismo, di xenofobia – prima contro “Roma ladrona” ed il meridione in genere, oggi, ma non da sola – alcune sue parole d’ordine vengono riprese anche da esponenti del centro-sinistra, oltre, naturalmente, che dai fascisti di tutte le risme, più o meno mascherate -, essenzialmente contro i richiedenti asilo, i profughi, i migranti-).

In passato però, ed in parte ancora oggi, si sono avute, e si hanno, esperienze che vanno in direzione opposta, con la costruzione  di comunità locali aperte, solidali, inclusive, che si collegano fra loro su temi specifici e per azioni comuni (si contano a decine – in certi casi a centinaia – i comuni riunitisi in associazioni e coordinamenti su obiettivi condivisi – non ritenendosi, quindi, delle “piccole patrie” in competizione fra loro, quanto piuttosto parti attive di discorsi complessivi, secondo l’impostazione indicata dagli ambientalisti “agire localmente, pensare globalmente” -).

Se facciamo una rassegna, breve e incompleta, di tali esperienze, possiamo ricordare:

  • l’impegno pacifista, e internazionale, delle città del mondo negli anni ’50 – su impulso del Sindaco di Firenze Giorgio La Pira –,
  • quello dei comuni denuclearizzati – sempre nello stesso periodo ed anche successivamente -, che intendevano così contribuire al movimento contro le armi atomiche,
  • il costituirsi in associazione degli “enti locali per la pace”, copromotori, a partire dagli anni ’80, della Marcia Perugia-Assisi (fondata nel 1961 da Aldo Capitini),
  • il mettersi insieme dei comuni – non molti – sostenitori della “difesa popolare nonviolenta”
  • l’aggregarsi di molti enti locali sulla base delle buone pratiche messe in atto (ecologiche, relative all’ambiente, nei confronti dei richiedenti asilo, dei profughi, dei migranti, collegate all’uso di strumenti volti ad ampliare la partecipazione – vedi il bilancio partecipativo -, contro le mafie etc.).

Caratteristiche particolari ha avuto, all’inizio degli anni 2000, la Rete del Nuovo Municipio: nata nel clima dei Social Forum, si proponeva di associare le realtà che, a livello comunale, mettevano insieme saperi, soggetti associativi e movimenti, istituzioni, al fine di ridefinire l’identità del territorio,  valorizzarne le risorse, in particolare i “beni comuni”, elaborare nuovi progetti, in una logica di alternativa dal basso – basata su solidarietà, accoglienza, interculturalità – alla globalizzazione neo-liberista.  Ha avuto vita breve ed il suo declino è venuto immediatamente dopo quello dei Social Forum.

Del pari si è conclusa rapidamente anche l’esperienza, portata avanti in Toscana, per iniziativa dell’ANCI regionale – sul finire del ‘900 ed agli inizi del nuovo secolo – di una Carta d’intenti degli amministratori locali in relazione alla tematica dell’immigrazione (al cui interno era presente la realizzazione dei “consiglieri stranieri aggiunti” e dei “consigli degli stranieri” come tappe di avvicinamento, e strumenti di pressione, per l’attribuzione del diritto di voto alle cittadine ed ai cittadini immigrate/i – oltre, naturalmente, che canali di partecipazione di chi ne è escluso alla vita politico-amministrativa locale -).

Va ricordato inoltre che sul finire degli anni ’90 la Rete Antirazzista, un organismo nazionale nato per iniziativa di varie realtà impegnate appunto sul terreno dell’antirazzismo e dell’azione solidale per i diritti dei migranti, aveva avanzato tre proposte di legge di iniziativa popolare – per nuove modalità per il conseguimento della cittadinanza, per il diritto di voto alle persone immigrate stabilmente residenti sul territorio italiano, per il trasferimento di competenze in materia di rilascio dei permessi di soggiorno dalle Questure agli Enti Locali -, purtroppo senza riuscire a raccogliere il numero di firme necessarie per presentarle in Parlamento (si tratta di obiettivi non ancora raggiunti, a distanza di quasi vent’anni). In particolare, allora, sul trasferimento di competenze (che intendeva togliere alla gestione poliziesca, collegata ad una visione securitaria delle politiche per l’immigrazione, la questione del rilascio dei permessi di  soggiorno) vi fu polemica, in quanto veniva obiettato che sarebbe stato pericoloso affidare tali compiti ad amministrazioni potenzialmente leghiste. I proponenti replicavano che gli             amministratori avrebbero dovuto applicare una legge nazionale, che comunque un comune sarebbe stato molto più controllabile di una questura, che ciò avrebbe attivato un processo di conoscenza, di dibattito, di confronto a livello di comunità locali, in grado di generare ulteriori anticorpi al razzismo all’interno della società.

Vi sono questioni fondamentali per la civiltà di un popolo – dai punti, essenziale per la sopravvivenza del genere umano, della guerra, della pace, dell’ambiente a quelli dell’antirazzismo e dell’antisessismo al contrasto di ogni tipo di fascismo, vecchio e nuovo, e dei fondamentalismi di varia natura –: è di grande importanza che ne siano investite le comunità locali (secondo l’intuizione di La Pira rispetto ai rapporti pacifici fra gli Stati e fra i popoli) e che il confronto abbia radici e si sviluppi a livello di base.  Altrimenti anche le leggi e i provvedimenti migliori non hanno le gambe per camminare. Gli avvenimenti successivi, nel nostro paese, ma anche, più in generale, in Europa, hanno preso una piega diversa e ne vediamo oggi le tristi conseguenze, con un senso comune diffuso di ostilità verso richiedenti asilo, profughi, migranti.

Rilancio della partecipazione, decentramento, riqualificazione della politica sono aspetti strettamente intrecciati fra loro.   Con questo percorso è possibile cogliere appieno la ricchezza di apporti che deriva dal fatto di avere “diecimila e una Italia”, con identità e caratteristiche le più diverse, che concorrono però tutte a definire il quadro generale. Ed una ricchezza in più può venire dalle nuove cittadine e dai nuovi cittadini [richiedenti asilo, profughi/e migranti] che si inseriscono (che dovrebbero essere accolti ed inclusi) nei diecimila e uno luoghi in cui si articola l’Italia.

Una prospettiva del genere si collega all’esigenza di un cambio    radicale nelle politiche economiche, con l’impiego dei fondi       destinati alle grandi opere, inutili e dannose, ed agli armamenti per il finanziamento delle uniche grandi opere che     valga la pena di mettere in cantiere (relative alla messa in sicurezza del territorio, alla riconversione ecologica, al recupero dei paesi e delle zone agricole abbandonate o in via di abbandono, alla riforestazione di intere aree distrutte dagli incendi e dalle frane …). Tutte opere che richiederebbero un forte impiego di    mano d’opera, con varie competenze, composta da nativi/e e da migranti. E’ esemplare in questa direzione il modello Riace – messo sotto accusa – dove l’inclusione di persone immigrate ha permesso di rivitalizzare un paese ormai quasi privo di abitanti.                                             

In altre parti del mondo sono nate esperienze significative, da cui occorre trarre spunti di riflessione e indicazioni. Penso, in primo luogo, a quella della autonomie locali federate delle curde e dei curdi del Rojava, costrette/i a difenderle con le armi dai tagliagole dell’ISIS, poi dai turchi del “sultano” Erdogan (puntano appunto alla federazione di realtà autonome, non ad un nuovo stato).

E’ necessario riproporre con forza le pratiche della democrazia partecipativa, finalizzandole, fra l’altro, alla difesa, valorizzazione, utilizzo dei beni comuni (e facendo nostro il motto di un’associazione francese che si propone di “democratiser la democratie”).                                           

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