L’Apocalisse come premonizione | Francesco Farina

dal numero 130 dell'estate 2018

Nel Dizionario italiano ragionato DIR (Firenze, 1988) del termine Apocalisse viene riportato il significato originario: «Rivelazione di segreti intorno alla fine del mondo e alla fine dell’umanità» e il significato con cui viene attualmente usato: «Enorme catastrofe. Fine del mondo». I due significati rimandano all’ovvia distinzione tra le accezioni religiosa e laica e alla differenza che c’è tra il modo di pensare il presente e di prefigurarsi il futuro del nostro tempo, e quello che, in secoli passati, ebbero le comunità da cui il vocabolo fu coniato.

Secondo l’esegeta francese Paul Beauchamp, citato da Piero Stefani in L’Apocalisse (Bologna, 2008), la letteratura apocalittica «nasce in ambiente giudaico e cristiano, per aiutare a sopportare l’insopportabile, in momenti di estrema crisi, per portare un messaggio di speranza».

Apocalittico per noi significa “catastrofico, cupo, spettrale, pauroso,” è “Voce assai diffusa nella pubblicistica contemporanea, e persino nel cinema, essendo la nostra età non priva di motivi per prevedere il peggio”. (DIR)

Nella nostra visione del mondo, «nell’immaginario cinematografico, come in quello comune, la parola apocalisse, evoca più distruzione che guarigione, più catastrofe che salvezza… La sussistenza del mondo “così com’è”, che per la speranza apocalittica era apparsa un’inaccettabile forma di rassegnazione, rischia, ora, di apparire conseguimento supremo» (Piero Stefani, op. cit., p. 118.). L’idea che abbiamo di apocalisse, si fonda su previsioni realistiche di possibili disastri futuri, si colora delle tinte cupe delle catastrofi incombenti: disastri ambientali, guerre nucleari, conflitti sociali, si conclude con indicazioni più o meno rassicuranti sulle scelte da compiere per cercar di evitare che l’apocalisse si avveri. Il modo con cui fronteggiamo l’attesa della nostra apocalisse è un modo tutto sommato conservatore; tende a salvaguardare i fragili equilibri ambientali, sociali e politici in cui viviamo. Preservare il mondo così com’è è la nostra massima aspirazione. Sembra che si sia incapaci di immaginare un diverso, migliore modo di vivere la relazione tra umani e la relazione degli uomini con la natura, di pensare “un oltre”, un andare verso “cieli nuovi e terre nuove”, per dirlo con le parole delle antiche profezie.

Si potrebbe dire che a questa concezione “laica” di apocalisse siamo stati educati già dalla narrazione delle gesta dei supereroi di fumetti, video, cinema. Le azioni dei supereroi creati dalla cultura americana sono volte, tra sfracelli e stermini, a riportare ordine e sicurezza nella società, a ripristinare la situazione preesistente.

Presentano scenari terrificanti di distruzione e di morte, ma hanno in fondo un effetto rassicurante, non sono percepite come prefigurazioni di ciò che potrebbe realmente accadere, ma come finzioni sceniche in cui identificarsi per la sola durata dello spettacolo al termine del quale ci si rassicura nel ritrovarci nel nostro mondo tutto sommato pacifico e sicuro che è bene conservare. Sono narrazioni “apocalittiche” che non ci impegnano in nessuna fervida attesa di una futura palingenesi e vanno bene per una società che non ha sguardi profetici, perché al futuro non è interessata.

Ma non in tutte le esperienze culturali l’apocalisse è vista così.

Conosco composizioni musicali come il Preludio di Debussy Ce qu’a vu le vent d’ouest che sembrano celare un presentimento del futuro, altre in cui la rappresentazione di un’Apocalisse sembra interpellarci sul senso che abbiamo dato e che al nostro futuro vogliamo dare: Vittoria sul Sole e l’oratorio Apokalypsis di M. Panni.

Il preludio per piano Ce qu’a vu le vent d’ouest fu composto da Debussy nel 1910. Si apre con il cupo rumore del ritmo dei registri bassi. «Si sviluppa in una corsa verso l’alto, in un crescendo della tensione fino ad esplodere di rabbia; il registro superiore sembra urlare sovrapponendosi al brontolio dei bassi», dice Baremboim. Prélude va inteso come «preannuncio di qualche cosa che sta per cominciare», e qui era quella musica inquietante e minacciosa ad essere preludio a qualcosa. Forse Debussy pensava solo alla violenza dell’Atlantico in tempesta. «Per noi che lo ascoltiamo oggi», osserva il pianista Emanuele Ferrari, «nella musica di quel preludio, anche per la suggestione del titolo che ha il verbo coniugato al passato come gli antichi testi apocalittici, ci sembra di udire il sinistro presagio di quel che il vento dell’occidente avrebbe visto passando sull’Europa nel secolo che stava per iniziare

Di un’apocalisse è rappresentazione Vittoria sul Sole andata in scena a Pietroburgo nel 1913. Stupì gli spettatori già con il suo inizio inaspettato: il sipario non si sollevò, ma venne squarciato su uno scenario in cui campeggiava un quadrato nero su fondo bianco. Era il “quadrato nero” di Kasimir Malevič che sarebbe poi diventato simbolo del Suprematismo russo. Lo svolgimento dello spettacolo proseguì con toni assurdi, in un ambiente surreale; I protagonisti del dramma, “gli abitanti del sarà”, si esprimevano nel linguaggio «transmentale» della “poesia a-logica e a-grammaticale”. La narrazione, per cui non valevano più le leggi della logica comune, era accompagnata da una tessitura musicale da cui era cancellata ogni melodia; sul palcoscenico agivano manichini mostruosi in scenografie deformate secondo una geometria “altra”, nel totale rifiuto del concetto tradizionale di bellezza. Al termine dello spettacolo il quadrato nero su fondo bianco, che rappresentava il nuovo, tenebroso perché ancora sconosciuto, venne scardinato dalla scena su cui aveva dominato per tutto il tempo dello spettacolo; una luce accecante investì gli spettatori. Il vecchio sole tornò a splendere, la forza della sua luce eruppe nuovamente sulla scena sbigottendo i protagonisti della rivolta.

Quell’opera voleva rappresentare una moderna apocalisse, la distruzione del vecchio mondo l’avvento di “tempi nuovi”; in essa c’era la rappresentazione simbolica dell’“assalto al cielo”, ma anche la predizione del suo fallimento, quasi un presagio di ciò che, di lì a poco, sarebbe successo.

Quattro anni dopo, una reale apocalisse iniziò con l’assalto al Palazzo d’inverno e scardinò un intero assetto sociale e politico. Una rivoluzione si sarebbe presto scontrata con la cieca ostilità del totalitarismo. Il volto demoniaco del potere sarebbe nuovamente riapparso con le sembianze di un mostruoso regime.

Vittoria sul Sole, per un secolo non ebbe più repliche. Rappresentata di nuovo dopo 100 anni, la si ascolta come l’evocazione delle tragedie del ’900, ma la follia della sua trama, la mostruosità dei personaggi, l’urto insostenibile della violenza dei suoni, possono essere ancora la premonizione dell’orrore possibile per ogni apocalisse con cui si voglia predeterminare il futuro.

In tutt’altro senso è proteso al futuro l’oratorio Apokalypsis di Marcello Panni (Spoleto, 2009). È una rappresentazione moderna dell’Apocalisse di San Giovanni, che vuol recuperare l’originale significato dell’espressione “fine dei tempi”, in ebraico baharit hayyamîm: “il tempo che viene dopo”, l’avvenire.

Per narrarla Panni amplia il campo dell’’esperienza musicale inserendo nella composizione i rumori della tempesta, del tuono, delle fiamme e del terremoto. È «una lettura austera con cui viene evocata una sacralità primitiva da rito sciamanico, con elementi di folklore latino americano innestandole su una rievocazioni di forme contrappuntistiche medievali e sulla salmizzazione gregoriana» (Panni). Apokàlypsis non illustra gli ultimi giorni dell’umanità, è evocazione di riti ancestrali per la rivelazione di un cammino interiore, la cui meta è lo stesso percorso.

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