LA VIOLENZA NASCE DALL’OPPRESSIONE di Giorgio Ferrari

Si allarga la discussione su Violenza e Nonviolenza. L’intervento di Giorgio Ferrari

Se ho capito bene ciò che intendeva dire Angelo Baracca, mi sembra che le risposte al suo intervento rispondano solo in parte agli interrogativi posti. Fra questi: la contrapposizione ideologica ancorché astratta tra violenza e non violenza e il discrimine aprioristico dell’una (nonviolenza) rispetto all’altra (violenza) nelle situazioni concrete in cui ci troviamo ad operare.

Sul primo aspetto trovo che gli esempi riportati siano ancora piuttosto astratti. Dice Tourquet: “Se una persona mi punta una pistola addosso io ho diritto di tirargli un calcio per evitare che mi uccida e così facendo sto facendo un’azione nonviolenta; se dopo prendo la sua pistola e lo uccido rientro nel circolo della violenza.” A parte la “scontatezza” dell’esempio, mi sembra che qui si palesi un altro concetto (anzi un diritto) che è quello dell’autodifesa che non può che contemplare l’uso della forza. Chi o cosa stabilisce il confine tra un uso legittimo della forza (dunque nonviolento secondo l’esempio fatto) e l’azione violenta non etica e non legittima? Se si afferma che questa è una scelta personale dell’individuo il dibattito finirebbe qui; se invece si vuole rappresentare un modo di essere generale, allora credo che le circostanze di luogo e di tempo, ovvero le condizioni reali che ci si trova ad affrontare volta per volta, abbiano un peso determinante tanto più quando ci riferiamo, non alle vicende di un singolo individuo, ma a veri e propri contesti sociali. D’altra parte l’uso legittimo della forza (se siamo d’accordo su questa definizione) introduce ad altri aspetti che non sono stati toccati. Cito ancora Tourquet: “Le monarchie assolute erano più violente di quelle costituzionali, ed esse più della democrazia formale che è più violenta della democrazia diretta e così via.” Mettendo da parte la democrazia diretta che è ancora in gestazione, l’indice di violenza attribuito alle altre forme di potere  non dipende tanto dal soggetto che l’amministra (il monarca o il governo democratico) quanto dalle mutate relazioni sociali tradottesi poi in leggi, diritti etc. grazie ai decisi mutamenti nei rapporti di forza. Quello che voglio dire è che mentre si riconosce al singolo individuo il diritto alla difesa personale anche attraverso la forza, ciò non avviene per le moltitudini di ogni tipo che facciano ricorso alla forza per difendere diritti collettivi. Dunque la legittimazione (non la legittimità) all’uso della forza è ancora privilegio esclusivo del potere e solo in apparenza le moderne democrazie sono meno violente delle monarchie assolute perché, pur ricorrendo meno alla violenza bruta, ne esercitano molti altri tipi altrettanto “efficaci”. Due soli esempi per brevità: a coloro che occupano edifici per scopi abitativi (difesa del diritto alla casa) se non si riesce a sgomberarli con la forza, vengono staccate le utenze dell’acqua e dell’elettricità (Art. 5 decreto Lupi, 2014); a certi detenuti “non collaboranti” (mafiosi ma non solo) si toglie la possibilità di leggere libri o avere quaderni e matite (Art. 41 bis). Come diceva Brecht: “Ci sono molti modi di uccidere. Si può infilare a qualcuno un coltello nel ventre, togliergli il pane, non guarirlo da una malattia, ficcarlo in una casa inabitabile, massacrarlo di lavoro, spingerlo al suicidio, farlo andare in guerra ecc. Solo pochi di questi modi sono proibiti nel nostro Stato.”

Diverso e più concreto è il tema della nonviolenza come metodo (ma anche prassi). Concordo con quanto asserisce Biagioni: “ Occorre…mettere in discussione alcuni punti ampiamente consolidati nel pensiero di chi s’impegna a sinistra – nei partiti come nei movimenti -, primo fra tutti quello che soltanto con la forza fisica, con un po’ di violenza, si ottengono risultati (la tendenza, assai diffusa, a considerare inefficaci le manifestazioni – delle passeggiate/scampagnate – se non vi è lo scontro con la polizia ne è una prova evidente).” Per un lungo periodo questo atteggiamento è stato più che presente e a prescindere dalle valutazioni di merito e dagli obiettivi raggiunti (o non raggiunti), esso ha prodotto anche danni nel modo di pensare di parecchi giovani. Negli ultimi tempi però è sensibilmente scemato, ma io non lo interpreterei come rifiuto della violenza tout court quanto come diversa e più attuale capacità di rappresentare le proprie istanze in un mondo mediatizzato in cui si è sempre più spinti a distinguere ciò che sarebbe giusto fare da ciò che invece può risultare più opportuno, dato che se non si provocano incidenti nelle manifestazioni si ottiene una accoglienza mediatica migliore. Con questo non intendo dare nessun giudizio di merito, ma solo registrare una tendenza in atto.

Quanto ai palestinesi, credimi Biagioni, l’alternativa non è tra i razzi di Hamas e i Comitati popolari nonviolenti, ma tra contrastare nel mondo (ed efficacemente) la politica di Israele e assistere compassionevolmente all’estinzione dei palestinesi, perché loro le hanno provate tutte, comprese le marce (nonviolente), gli scioperi della fame, gli esili e i campi di concentramento (altrimenti detti campi profughi). Hamas è un residuo di altri tempi che certamente farà ancora danni, ma non interpreta nemmeno più il conflitto israelo-palestinese per il semplice motivo che quel conflitto è finito, nei termini in cui lo abbiamo conosciuto, e non risiede nemmeno più in Palestina. I giovani vanno via o abbandonano la lotta, qualunque tipo di lotta perché, semplicemente, non si può più vivere in quelle condizioni. Perciò non chiederti cosa dovrebbero fare i palestinesi per il loro paese, ma cosa sei disposto a fare tu per loro. Scusa la franchezza, ma un conto è discettare di violenza come facciamo noi, un conto è viverla ogni momento della tua esistenza come succede a loro.

Finisco passando all’altro aspetto, quello del discrimine aprioristico che Angelo esemplificava così: “Oggi sembra che non ci si possa esprimere su nulla, sui movimenti, sulle lotte sociali e politiche, sulle forme di lotta, se non si antepone la premessa quasi rituale “Ovviamente con metodi non violenti”, o unendo “Pace e nonviolenza”. Personalmente in tutte le occasioni in cui ho fatto cose insieme a compagni o persone nonviolente (ho ricordato Melandri, ma potrei citare Comiso nel 1983, marce per la pace o iniziative antinucleari) non ho mai sentito un compagno “violento” porre lo stesso tipo di discriminante verso i nonviolenti. Piuttosto ho visto la predisposizione dei “violenti” ad adeguarsi alle pratiche dei nonviolenti, non come atto formale ma sostanziale, cioè di rispetto verso l’impegno comune che i nonviolenti attestavano con la loro presenza. Con un limite: quello di reagire se colpiti, ed è quello che è successo a Comiso quando la polizia caricò il corteo manganellando ben bene anche i militanti di PaxChristi.

Su questo aspetto la mia personale impressione è che la discriminante nonviolenta si sia cominciata a porre con forza negli anni ‘70 sotto la spinta politico-mediatica della sinistra istituzionale (Pci, Psi, sindacati) che per isolare i violenti chiedeva a tutti gli altri di dissociarsi. Solo che “in tutti gli altri” non c’erano esclusivamente i nonviolenti, ma anche quelli che -pur non rifiutando la violenza- si dissociavano per non incorrere in anatemi. Non a caso Berlinguer ci definì “untorelli” e in quanto portatori di peste andavamo conseguentemente isolati. Ma erano gli anni ‘70 con tutto quel che ne è seguito! Ma in seguito, e fino all’oggi, cos’altro giustifica queste discriminazioni? Se è l’aspetto concettuale-ideologico allora torniamo al primo punto che, mi sembra, sia stato affrontato piuttosto astrattamente.

C’è però dell’altro di appena accennato in qualche passo degli interventi riguardanti la Bolivia (e a cui nella mio intervento facevo riferimento) da parte di Tourquet e Cacopardo che vorrei evidenziare. Precisamente: “La morale è che la violenza genera violenza; a me non interessa chi ha cominciato (la solita diatriba sulla genesi) ma mi interessa chi smetterà.” (Tourquet) e poi “noi abbiamo disperato bisogno di una nuova Visione, una nuova Idea complessiva dell’essere sociale e della storia che sostituisca e superi il marxismo, lasciandosi alle spalle le sue vecchie categorie, che non solo non servono a capire la realtà che abbiamo intorno, ma sono ormai solamente nocive: particolarmente, come pensa Olivier, dobbiamo lasciarci alle spalle qualsiasi culto del conflitto violento” (Cacopardo).

Nel merito non trovo di meglio che usare le parole di un grande pedagogo oltre che credente, Paulo Freire (La pedagogia degli oppressi) dove scrive in proposito: ” Una volta stabilito il rapporto di oppressione, si dà il via al processo della violenza, che mai nella storia, fino ad oggi, è scoppiata per iniziativa degli oppressi. Come potrebbero gli oppressi dare inizio alla violenza, se loro stessi sono il risultato della violenza?”.

Ma ciò che mi interessa approfondire è se, in forma sottesa, la nonviolenza si presenta anche come “pretesto” antimarxista, ovvero come mera contrapposizione ideologica ricavata in negativo dall’impianto marxiano. Per essere sintetico: la nonviolenza come nuova weltanschauung, oppure come riflesso concettuale della inconcludente violenza attribuita al marxismo?

Solo per interesse speculativo e senza alcun intento polemico, sia chiaro, che qualunque sia la risposta non cambierebbe il mio approccio al tema in questione: humani nihil a me alienum puto (nulla di ciò che è umano mi è estraneo) per cui violenza e nonviolenza mi appartengono non in quanto astratte categorie di pensiero, ma come ambito di confronto sulle contraddizioni reali che di volta in volta si presentano nella vita e nella società.

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