Agli inizi degli anni Settanta, Argan preconizzava la crisi dell’arte come scienza europea, la rapida decadenza di quel sistema di idee, di suggestioni, di emozioni che a partire dalle avanguardie storiche aveva costruito, in Europa, l’esperienza estetica della realtà.
Tra i tanti fattori di crisi, preponderante è divenuta, negli anni, la tendenza al rapido consumo, carattere dominante dei generali comportamenti della civiltà presente. La velocità della diffusione, che sottopone le opere a una rapida obsolescenza, e l’esigenza del mercato di esibire merce sempre nuova, hanno condotto all’assoluta preminenza dei fattori economici. Fenomeno, come sappiamo, presente in misura minore già nei secoli scorsi, ben consistente nel XIX secolo, e definitivamente esploso nel corso del Novecento. E, al suo interno, è divenuto sempre più importante il ruolo delle immagini.
Infatti, mai il mondo è stato, come oggi, avido e prodigo di immagini. L’apparato tecnologico-organizzativo dell’economia globalizzata non limita, anzi potenzia la funzione dell’immagine. Vi sono grandi imprese che non producono e non vendono altro che immagini. Naturalmente l’informazione mediante l’immagine viene organizzata, ha le sue tecniche e i suoi tecnici, si sviluppa col progresso della tecnologia relativa.
E qui Argan poneva due interrogativi: si può chiamare arte questa tecnica dell’immagine? E ancora: si degraderanno gli artisti dal loro rango di intellettuali per farne dei tecnici dell’immagine? Interrogativi anche oggi assai inquietanti.
Come ancora attuale rimane la domanda che da decenni ossessiona la critica e la storia dell’arte: si può accettare che l’esperienza estetica venga sviata dal suo fine istituzionale – conoscitivo – e strumentalizzata? La ricerca artistica può asservirsi al consumo?
Una prima risposta viene spontanea: c’è antitesi tra consumo e valore; in tutta la sua storia, l’arte è un valore di cui si fruisce, ma che non viene consumato. Un’arte che si consumi fruendone, come un cibo che si mangia, è qualcosa di totalmente diverso da tutta l’arte del passato.
Ma non tutti la pensano così.
Infatti, anche solo limitandoci al panorama occidentale, non è difficile individuare una linea di demarcazione abbastanza netta tra i modelli e i comportamenti socio antropologici degli Stati Uniti e dell’Europa.
Pensiamo al ruolo del mercato. Andando per grandi linee, si può affermare che per l’artista americano il mercato costituisce il riconoscimento del proprio valore. Il mercato americano, con il suo dispositivo economico aggressivo, tende a invadere con la propria merce artistica tutto il mondo; così la forza d’urto della potenza economica, cioè la quantità, diviene qualità, nel senso che costringe feticisticamente il collezionismo – sia privato che pubblico – ad assorbire il prodotto preselezionato. Rovesciando un tradizionale modo di essere, nella logica di mercato non è più il soggetto che va alla ricerca dell’oggetto del suo interesse (cosa che implica un ruolo attivo), ma è l’oggetto che va alla caccia del soggetto (ed è evidente la condizione di passività).
Per l’artista europeo – sempre per grandi linee – l’assorbimento e la mercificazione dell’arte costituiscono, invece, un problema etico e politico; egli accetta meno passivamente le condizioni del proprio mercato. La cultura europea vuol dire rimando a matrici e modelli culturali, mentre quella americana vede nello sperimentalismo tecnologico un fine. La tecnologia diventa tecnica del pensiero. Concezione – quest’ultima – che negli anni ha progressivamente acquistato la preminenza. E il tentativo, tutto europeo, di concorrere al formarsi di una civiltà assolutamente razionale, contro una società che ha accettato il genocidio, i campi di sterminio, la bomba atomica, è naufragato; l’autonomia della ricerca artistica è stata respinta da una società sempre meno razionale e sempre più disposta ad accettare l’arbitrio del potere.
Molti sono i filoni attraverso cui il fenomeno può essere indagato.
Uno tra i più emblematici, a mio avviso, può considerarsi quello che si incentra sul rapporto tra arte e oggetti di consumo.
L’intero cammino dell’arte del secolo passato è contrassegnato dal difficile, variegato, complesso, talora polemico rapporto con gli oggetti del mondo industriale, con la loro natura seriale, con il loro consumo di massa. Un fil rouge collega il gesto provocatorio di Duchamp (la Fontana del 1917) al dipinto che Warol dedica nel 1962 alle Lattine di zuppa Campbell, o alle compressioni di spazzatura di Cesar e alle accumulazioni di Arman negli anni Sessanta, fino alle tavole imbandite della mostra Eat Art (2004) di Daniel Spoerri, o, oggi, ai miscugli di oggetti orientali e occidentali del cinese Chen Zhen.
Riferiamoci a tre varianti: il ritratto della merce; l’ironia sulla merce; la contestazione della merce.
Il puro ritratto è proprio principalmente della Pop Art e dell’Iperrealismo. Ma la citazione degli oggetti avviene anche tramite il loro semplice riuso, con la conseguente desemantizzazione della loro funzione e il loro riapparire nelle opere come puro materiale espressivo. L’ironia, invece, si avverte nella trasformazione delle dimensioni, dei colori, delle forme dei materiali in modo da ricreare nuovi oggetti estetici; ma anche con il riciclaggio degli oggetti usati, consumati, buttati, fino alla ricreazione di oggetti nuovi, mediante istallazioni sarcastiche e provocatorie. Esempio clamoroso il Calcio balilla per cinquanta giocatori, di Maurizio Cattelan, ottenuto con il montaggio di una serie di telai di biliardini veri.
La contestazione del consumo, come è noto, è la tendenza più frequente a partire dagli anni Novanta. È, tra gli altri, il caso della messicana Minerva Cuevas, che fa il verso ai manifesti di una grande industria alimentare per invertirne il significato; oppure di Tom Sachs con una delle sue ormai ben conosciute provocazioni contro il mondo dei consumi e delle case di moda; oppure di Rhonda Weppler, con le sue installazioni di prodotti Ikea orientate a polemizzare con quell’industria dell’arredamento di massa; o, infine, di Ricky Swallow che costruisce teschi con i contenitori di computer Mac.
Rimane tuttavia da vedere fino a che punto questi atti che si qualificano di protesta siano veramente forze che intaccano la stabilità del sistema culturale dominante o non, piuttosto, opposizioni autorizzate che il sistema facilmente utilizza a propri fini.
Infatti, a differenza di quanto accadeva per le avanguardie del primo Novecento che in genere venivano rifiutate dalla cultura ufficiale, le espressioni artistiche della seconda metà del XX secolo (ma anche del primo decennio del XXI) sono alimentate da una fitta rete di interessi commerciali, da una potente organizzazione del mercato estesa a livello internazionale che, nella maggior parte dei casi, ne determina le fortune e le sfortune.
Dunque, osservando il fenomeno nelle sue generali linee di tendenza, diviene naturale constatare che la ricerca artistica perde oggi le sue prerogative regionali e nazionali e riconosce come proprio contesto una sorta di stato mondiale dove non esiste un solo centro, ma piuttosto un campo continuamente forzato dalle periferie. Un mondo a costellazione: Parigi, New York, Milano, Roma, Londra, Berlino, Shangai, Bilbao, Venezia, Kassel; i musei; le gallerie; le aste e le fiere; internet e i luoghi virtuali.
E, tuttavia, a secolo XXI inoltrato, resta di grande attualità quell’esigenza espressiva che emanava da alcune provocazioni del primo Novecento europeo: la necessità di creare situazioni in cui affiancare all’arte della contemplazione l’arte dell’azione, l’interattività. Con una salda consapevolezza, avvertita dagli artisti più sensibili (per esempio Studio Azzurro) che oggi su quei terreni si vanno cimentando: contemplazione non è sinonimo di passività, ma è una modalità consapevole del vedere che va recuperata proprio per contrastare l’inerzia, la passività indotta dal flusso ininterrotto d’immagini cui siamo sottoposti. Azione e contemplazione, dunque, rimandano a due modalità cognitive complementari. In generale. Non solo nell’ambito di quell’orizzonte interattivo che si è andato delineando a opera delle nuove tecnologie.
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