La psicologia sociale dell’ambiente ha introdotto nel discorso scientifico una distinzione tra “ambiente” e “posto” (per la verità prima nei loro equivalenti inglesi “environment” e “place”), peraltro già presente anche se non esplicitata nel discorso di senso comune. Il primo termine corrisponde a un approccio oggettivante, a un punto di vista esterno, quello da cui si studiano tutte le specie viventi e i loro modi di adattarsi all’ambiente. Ma è lo stesso adottato per gran parte del secolo scorso dalla psicologia “scientifica” anche per gli esseri umani, finendo per dare un’immagine “rattomorfica” (von Bertalanffy) di entità che, per certe caratteristiche qualificanti, non possono essere studiate come oggetti: per conoscerle per quello che realmente sono, le si deve interrogare. Il loro punto di vista è infatti una parte essenziale di ciò che si studia, perché la loro condotta non è mai una risposta a stimoli o insiemi di stimoli definibili e misurabili in modo oggettivo da un osservatore esterno. L’ambiente in cui gli esseri umani agiscono è così come essi lo vedono; e il modo come lo vedono dipende da ciò che vi proiettano non meno di quanto dipenda dalla sua “realtà” oggettiva.
Negli altri animali il rapporto con l’ambiente è regolato dai loro sistemi sensori e motori geneticamente determinati, e dal bagaglio di variazioni consentito dalla possibilità di modificare le loro risposte in funzione dell’apprendimento: un bagaglio tendente a zero in alcuni relativamente impermeabili all’ambiente (come i vermi), molto ampio in altri molto più permeabili (come i mammiferi e soprattutto gli scimpanzé). Tutti quanti rimangono comunque entro il limite prodotto dall’assenza di attività simbolica, di un linguaggio, che seguendo Wittgenstein non significa solo comunicare, ma assegnare un significato alla realtà che di per sé ne è assolutamente priva.
Anche la Bibbia narra che Adamo, per prendere possesso di tutte le cose presenti nell’Eden, dovette dare loro un nome; e dopo l’esplosione della babele di linguaggi (oggi diciamo delle diverse culture) ogni gruppo umano ha dovuto portare avanti tale opera, dare un nome alle cose: che come la linguistica moderna ci dice, non è un descriverle per quello che “sono già”, ma un farle essere quello che “sono per” chi ha dato loro un nome. Alla realtà fisica si sovrappone, e in parte la trasforma, un secondo mondo popolato, ad opera degli esseri umani, da cose che non esistevano nel primo, dai prodotti della tecnologia come l’aratro o la luce elettrica, alle idee come la democrazia o le leggi, che cambiano la vita degli esseri umani ancora più delle prime.
In questo processo la capacità simbolica, fonte del nostro specifico modo di conoscere-costruire il mondo, si esprime sia nella forma del logos, della misura, del calcolo, della categorizzazione, che consente di prevedere e controllare i fenomeni fisici, sia in quella del ludus, della disposizione a giocare con la realtà, a immaginarla in forme che non esistono fino a quando una mente umana non
getta su di loro uno sguardo che le fa venire alla luce. Queste sono non solo le grandi opere d’arte e scoperte scientifiche, ma il frutto quotidiano della mente di esseri viventi che sono pensanti, senzienti ed etici: capaci cioè di elaborare un proprio punto di vista sul mondo e di confrontarlo con quello degli altri in base a ragioni, emozioni e valori.
L’ambiente è un concetto in cui prevale la prima modalità di conoscenza, è oggetto del discorso scientifico, definito e analizzato prescindendo da quelle che Pascal chiamava le “ragioni del cuore che la ragione non conosce”. Ma sono proprio queste ultime a disegnare il mondo della vita di cui gli esseri umani fanno esperienza, e non solo col cuore ma con tutto il loro corpo: un mondo di immagini, suoni, odori, sensazioni tattili, movimenti nello spazio; di memorie e sogni, di presenze e assenze. Non è l’ambiente che li circonda rimanendo là nella sua oggettività, ma il posto dove sono vissuti, dove hanno messo radici, dove le cose sono diventate parte di loro stessi.
La distinzione tra ambienti e posti è analoga a quella magistralmente analizzata da Remo Bodei tra oggetti e cose: i primi sono ciò che semplicemente si contrappone ai soggetti, le seconde sono ciò verso cui si ha un investimento affettivo. Da questo scaturisce anche il loro valore di simboli sia della caducità quando si usurano o si perdono, sia della persistenza quando vivono più degli esseri umani e passano da una generazione all’altra o, trasformati in cose sacre, vengono percepiti come eterni (totem, reliquie).
La stessa etimologia ci dice che l’ambiente è ciò che “gira intorno”, ha il senso di movimento (ire in latino è andare), è il contesto in cui si vive e a cui ci si deve adattare, che segue i propri ritmi circolari, giornalieri e stagionali già noti da millenni, e processi lineari di mutamento che sono oggi il tema principale dell’ecologia. Il posto è lo scenario e il contesto in cui si susseguono le vicende della vita, ma anche il luogo della persistenza, della stabilità, quello che si cerca in momenti di transizione e incertezza, quello dove si tende a ritornare dopo un viaggio, come l’Ulisse omerico alla sua Itaca. È il “proprio” posto, che si decide di accettare o modificare o abbandonare con un atto volontario; è il luogo delle radici e dei legami, in cui vige non il tempo newtoniano che distingue separandoli i momenti di una serie lineare, ma il tempo delle storie, che unisce in modo inscindibile passato, presente e futuro, dando significato ad ogni momento come parte di un tutto unitario. Come nell’eroe Ulisse, negli esseri umani sono presenti entrambe le dinamiche, quella omerica delle radici e quella dantesca del volo verso l’ignoto, del superamento di ogni confine. Il genere umano ha affidato questo secondo compito alla scienza, che con le risorse proprie della mente umana e quelle degli strumenti da essa prodotti è in grado di analizzare e descrivere il mondo che ci circonda, l’ambiente, dall’infinitamente piccolo della fisica subatomica all’infinitamente grande dell’astrofisica. Ma la ricerca di risposte a domande come “Da dove veniamo, chi siamo, dove andiamo” del quadro di Paul Gauguin, non può essere affidata né al logos né alla sua versione più avanzata e sofisticata dell’intelligenza artificiale, che non soddisfano il bisogno di significato altrettanto forte negli esseri umani, legato anche alla sfera delle emozioni e dei sogni, delle speranze e delle paure.
L’intreccio tra i due moventi, della conoscenza oggettiva necessaria per controllare i processi ambientali, e del punto di vista che trasforma gli oggetti in cose e gli ambienti in posti da vivere, rende particolarmente complessa la ricerca di soluzioni ai problemi dei mutamenti climatici, dell’inquinamento, della ormai certa carenza di risorse indispensabili come l’acqua, che devono essere affrontati in una dimensione globale indipendente e potenzialmente in conflitto con quella locale.
È un dilemma che non può essere risolto con un taglio gordiano in nome di esigenze collettive da valutare oggettivamente dall’esterno rispetto ai mondi di vita in cui agiscono forze come quelle della ricerca di sicurezza e di identità, entrambe radicate nei livelli più profondi della nostra storia evolutiva. Il bisogno di sicurezza l’abbiamo in comune con tutte le altre specie: è quello che fa rintanare la lucertola all’avvicinarsi di un potenziale predatore, e che negli esseri umani suscita i movimenti NIMBY (not in my back yard, “non nel mio giardino”) alla proposta di una discarica o un inceneritore. Il bisogno di identità, proprio solo della nostra specie ma non meno forte, è quello del legame col passato, con una storia che individui e gruppi devono proteggere perché perdendola perderebbero se stessi e la loro capacità di progettare il proprio futuro. E dunque non va dimenticato che i localismi considerati da politici ed esperti frutto di mancanza di informazione o errori di valutazione, sono invece, pur con i loro limiti, espressione di un diverso modo di percepire il mondo che ci circonda e, soprattutto, il nostro posto nel mondo.
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