Homo narrans | Piero Paolicchi

dal numero 125 della primavera 2017

Se il borghese gentiluomo scoprì ben tardi nella vita di esprimersi in prosa ogni volta che parlava, gli psicologi hanno scoperto altrettanto tardi che i romanzi non sono un puro esercizio di fantasia da momenti di evasione dall’attività con cui la mente conosce il mondo. Uno dei fondatori della psicopatologia, Janet, aveva provato a ricordare a chi si occupava di tali problemi, che c’è tanta psicologia nelle opere di uno scrittore quanta nello studio anatomico di un cervello, e uno dei padri della psicologia, William James, aveva ironicamente criticato una psicologia che si affidava agli “strumenti d’ottone” dei laboratori per comprendere la mente.

Ma il rifiuto della maternità filosofica da parte della maggioranza degli psicologi nei primi decenni del Novecento li indusse ad affidarsi alla più solida paternità del metodo scientifico applicato nel campo delle scienze naturali. Entità come coscienza, volontà, linguaggio, credenze, miti, scomparivano dai loro progetti di ricerca, sostituite da esperimenti sul comportamento di ratti e altri animali secondo il modello stimolo-risposta ritenuto applicabile anche agli esseri umani: perfino le scelte morali non erano più che il risultato dell’interiorizzazione di controlli esterni a seguito di condizionamenti dall’ambiente.

Anche quando, verso la metà del secolo, la “rivoluzione cognitiva” ridefinì l’oggetto della ricerca, spostando il fuoco sulla mente umana con le sue specifiche facoltà, persisteva la stessa logica, centrata sul criterio dell’oggettività come corrispondenza con i fatti. L’attenzione si spostava dal comportamento animale in quanto versione semplificata di quello umano al funzionamento della mente umana come elaboratore di informazione, di cui il computer rappresentava un versione abbastanza affidabile.

Se il risultato della rivoluzione comportamentista, secondo von Bertalanffy, fu che gli psicologi, temendo di dare una visione antropomorfa dei ratti, finirono per accettare una visione rattomorfa degli esseri umani, anche la svolta cognitiva produsse un impoverimento e una serie di distorsioni dell’oggetto studiato, di cui sfuggivano, e continuano a sfuggire all’occhio delle scienze cognitive, facoltà essenziali come la creazione di sistemi simbolici non rispondenti a qualsiasi logica computazionale, come le metafore e le narrazioni.

Per il mainstream di una psicologia dominata da un’ideologia della scienza che assolutizzava una particolare versione del metodo scientifico separato dal suo contesto umano, quindi sociale, storico e culturale, le opere letterarie rimanevano perciò solo uno dei tanti repertori di dati da analizzare e spunti per ipotesi teoriche da verificare sempre alla luce dello stesso metodo, con esperimenti in laboratorio o analisi statistiche di dati.

Qualcuno, veramente, negli stessi anni tentava uno studio del mondo tanto più vasto e complesso della psiche privilegiando l’interpretazione sulla sperimentazione. Henry Murray studiava le dinamiche profonde della personalità ricorrendo a miti come quello di Icaro o a romanzi come Moby Dick, e Kurt Lewin affermava che di fronte alla “ricca e vasta regione di strani avvenimenti” che si apre all’osservazione della realtà umana, le descrizioni più complete e concrete ci sono state date da scrittori come Dostojewski. Al di qua dell’Atlantico, altri studiosi, specialmente in Francia anche per l’influenza di Bergson e in Germania per quella di Dilthey, mantenevano un intenso scambio con la storia e la filosofia, la linguistica e l’estetica. E Freud, nonostante la sua intenzione di fare della psicoanalisi una scienza naturale, ammetteva una stretta affinità tra psicoanalisi e letteratura, traeva dalla letteratura sia stimoli sia conferme, e usava la narrazione come modo preferito di spiegazione.

Una svolta radicale si è prodotta tuttavia solo con quella che è stata definita la rivoluzione narrativa. Alla sua base sta la scoperta, apparentemente simile a quella del borghese di Molière, che gli esseri umani sono tali non solo perché parlano, in prosa o in poesia, ma perché costruiscono storie che sono il solo modo di spiegare quella parte della realtà costituita non da fenomeni dovuti a forze e relazioni causali, ma da eventi, le azioni di esseri umani che non si adattano soltanto al mondo in cui sono calati, ma sono capaci di modificarlo. Sarebbe difficile spiegare le tante costruzioni matematiche con la necessità di contare le cose; o le arti figurative con il loro uso per scambiare informazioni mediante una rappresentazione analogica; o i milioni di storie d’amore vissute e scritte da Saffo ad Anna Karenina con i processi riproduttivi.

Dal ratto nel labirinto e dal computer si passa ad una nuova metafora dei soggetti umani: non meccanismi o organismi sottoposti a leggi universali di funzionamento, ma protagonisti e autori (o almeno coautori) di storie vissute, in cui essi agiscono e subiscono, che in parte sono assegnate loro e talvolta loro imposte, ma che essi possono, almeno in certa misura, modificare. In quanto tali, gli esseri umani non possono essere soltanto analizzati da un punto di vista esterno, devono essere anche interrogati, ascoltati e compresi nei termini del loro proprio punto di vista sul mondo. Un punto di vista che non è solo il risultato di un processo di computazione. La razionalità è una manifestazione tanto sofisticata quanto parziale dell’attività simbolica, che comprende anche cose come immaginazione, desiderio, emozioni, piacere estetico, fantasia, angoscia, mistero. La conoscenza delle azioni umane, come quella delle opere dei grandi tragici greci o dei romanzieri moderni, richiede non solo controllo e logica, ma anche la saggezza pratica offerta da una comune cultura e la capacità di entrare in sintonia con l’altro in base alla comune umanità.

Anziché essere esercizi di fantasia, le narrazioni rivelano una precisa portata conoscitiva perché, pur sul piano del possibile e del verosimile anziché dell’attuale e del vero, servono a spiegare come e perché qualcosa è accaduto o è stato fatto da qualcuno, o potrebbe accadere o essere fatto, e perché la spiegazione che esse danno può essere adatta a quel caso o persona particolari: a dare insomma una quantità di informazioni che la semplice applicazione di un qualsiasi modello formale non darebbe. Hanno quindi una funzione insostituibile nel trasmettere alle nuove generazioni il sapere su quel mondo in cui dovranno muoversi, ma con la possibilità di guardarlo da un punto di vista diverso e modificarlo.

Da un lato, perciò, le storie stabilizzano la realtà offrendo modelli di condotta condivisi, dall’altro, possono aprire nuove prospettive e risultare causa di profondi mutamenti nella cultura stessa. La stessa capacità simbolica che consente agli esseri umani di trascendere il mondo dato per immaginarne altri possibili fa sì che le storie spesso anticipino e favoriscano mutamenti nella cultura di cui sono espressione sempre in qualche misura originale. Non solo, ma chi le riceve le interpreta col bagaglio sempre irripetibile della sua particolare storia, in cui convivono le ragioni della condivisione di storie già narrate e vissute che è la cultura di appartenenza, insieme con la diversità e l’apertura al nuovo che consentono di opporre una storia diversa a quella proposta nel presente come unica e ultima verità. Come racconta la nota favola, anche di fronte al consenso generale sui vestiti dell’imperatore, qualcuno, magari un bambino, può gridare che è nudo.

Per questo le storie hanno un carattere intrinsecamente democratico, propongono e contrappongono punti di vista sul mondo nessuno dei quali pretende di essere l’unica verità, ma di proporne una come possibile e apprezzabile. E per questo quando una sola viene fatta assurgere al ruolo di Grande Narrazione che propone verità ultimative, siamo in un mondo in cui creatività e libertà, i caratteri essenziali degli esseri umani, sono coartate o soppresse, non a caso bruciando i romanzi e incarcerando i romanzieri prima ancora degli scienziati.

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