Alle persone semplici, dice Limonov, piacciono i romanzi che parlano della vita, perciò danno fiducia al narratore e si lasciano guidare nel mondo che ha costruito. Se poi l’autore fa, o li convince di fare, biografia o addirittura fa loro credere di vivere come scrive, allora il miracolo è compiuto.
A me sono sempre piaciute le storie. Mi è piaciuto sentirle raccontare, poi anche leggerle e pure vederle al cinema. Ho avuto una madre che mi ha raccontato fiabe, un padre che mi ha raccontato la sua guerra, uno zio che quand’ero malato veniva a raccontarmi episodi dell’Orlando furioso e storie inventate da lui per l’occasione, un altro zio fissato con il cinema, tanto che ci andava quasi tutte le sere e un paio di volte la settimana era costretto dalla mia ostinazione a portarmici. Presto, dunque, ho conosciuto il mondo parallelo delle storie narrate, quel mondo grande, tanto da avvicinarsi all’infinito, rispetto al mio piccolo mondo di paese, che pure attraverso quelle storie si trasformava in luogo di straordinarie avventure. Quando ho imparato a leggere, c’è voluto poco perché proseguissi il viaggio da solo e trovassi i libri, i miei libri da leggere, ed erano romanzi per lo più. Così l’adolescenza mi si presenta nel ricordo segnata dalle esperienze vissute e dai libri che ho letto, in modo appassionato e compulsivo perché in essi mi rispecchiavo e in essi cercavo la chiave per capirmi e per capire il senso della vita. Non è un caso se gli amici che mi sono rimasti di quel tempo siano quelli con cui ho condiviso letture, seguite da interminabili discussioni che ci portavano sino al cuore della notte come se ne potessimo trarre qualcosa di essenziale per le nostre vite.
Poi, è vero, le cose si sono complicate quando i romanzi divennero letteratura, cioè studio e lavoro. Mai però ho dimenticato che gli autori delle storie erano miei fratelli e sorelle, qualcuno padre putativo, che indicavano una dimensione più grande dell’esistere. A mio modo, sin dagli anni dell’adolescenza, ho provato a viverla questa dimensione, collocandomi dalla parte di chi la parola la scrive e arrivando a dichiarare che nel libro mi specchiavo, io che non ero altro che parola. Davanti a esiti di questo genere, una persona benpensante o un giovane bene integrato nel consumismo contemporaneo potrebbero a ragione sentenziare: Ecco come uno può rovinarsi la vita. Ma con questa sentenza finirebbero per rafforzare la mia idea di romanzo: in fondo, avrebbero definito un Don Chisciotte del XX secolo.
Sarà perché mi porto addosso, per estrazione sociale e per formazione, queste stimmate che ho sempre pensato che la persona semplice non ignora l’oscuro che segna, oltre il dolore e la morte, la vita, perciò cerca anche i romanzi che sanno avvicinarsi a ciò che sfugge alla luce della ragione e del discorso ordinato, vale a dire l’origine della vera poesia. Che il romanzo è un’opera poetica, l’ha scritto Dostoevskij. L’adolescente assetato di verità, in cerca di risposte alle domande che tendono sempre all’assoluto, attraversa il grande romanzo ottocentesco di Flaubert e Stendhal, scoprendo presto, con Henry Brulard, che ogni fine morale, cioè interessato, nell’artista, uccide qualsiasi opera d’arte. Per essere subito smentito dal solito Dostoevskij. E poi attraversa Tolstoj per arrivare a Cechov, Pirandello e Svevo per arrivare a Henry Miller.
Questa idea di romanzo può essere sbrigativamente catalogata come realismo. Solo che io lo vedo, come Kafka mentre legge Strindberg, standomene seduto su una statua, saldamente, per avere un più ampio orizzonte. Insomma, non sono io il personaggio di Philip Roth che minaccia di fucilare chiunque verrà sorpreso a far uso di fantasia e mi dichiaro vaccinato verso le teorizzazioni e la pratica del realismo mimetico variamente declinato. Conosco quel vuoto che va oltre le nostre possibilità da cui nasce la spinta a creare l’opera, so che nessun progetto sarà mai opera d’arte se manca quella forza che sale dal non conosciuto e fa dello scrittore una sorta di medium: ho scritto in uno stato d’incoscienza, dice Kafka a proposito di un racconto, e Antonio Moresco accenna a una porta attraverso cui il caos prende la parola. La fantasia in un romanzo mi piace, ma forse sarebbe meglio dire l’invenzione, quella forza che trasforma i dati del reale presente e possibile in una storia, meglio ancora se diventa visione, se oltre a farsi opera in cui pulsa la vita, illumina l’oscuro dell’esistere e apre l’altro possibile. “Voi, artista, con un tratto solo, in un solo istante, in un’immagine presentate la sostanza stessa della cosa … Ecco il segreto del processo artistico, ecco la verità dell’arte! Ecco il servizio che l’arte rende alla verità!” (Dostoevskij). Alla metafora preferisco l’allegoria, e non solo perché le metafore fanno disperare il caro Franz per la dipendenza dal gatto e dalle povere vecchie. Pur consapevole che il romanzo è il genere con cui si può “raccontare qualsiasi cosa in qualsiasi modo” (Guido Mazzoni), ho il mio canone novecentesco tagliato con l’accetta: esso comprende i vecchi amori Kafka, Joseph Roth, Steinbeck e Romano Bilenchi e i più recenti Vassilij Grossman e DeLillo.
Certo, i posteri, come abbiamo imparato, hanno un debole per lo stile. Senza lo stile naufragano anche le migliori intenzioni. Solo che il concetto di stile appare piuttosto vago e mutevole. Lo stile di Flaubert, per dire, non è quello di Céline né quello di Joyce. Nessuno dubita però che ognuno di questi autori abbia lo stile giusto per le proprie opere. “Il racconto, qualora sia giustificato, porta in sé la sua organizzazione compiuta”, dice Kafka, e meglio non si può dire. È per questo stile giusto che abbiamo un debole. Ma anche per la sua giustificazione, cioè per la sua necessità. In assenza di questa si ha la sperimentazione sulle forme e sul linguaggio che, quando non è solo gioco, dissoda terreni nuovi d’espressione, crea le premesse per nuove opere ma non le produce. Le avanguardie, dal Futurismo in poi, non hanno prodotto romanzi degni di essere ricordati. Ma dall’Oulipo sono nati gli ultimi romanzi di Italo Calvino. E la Trilogia della città di K. non si giustificherebbe senza lo strutturalismo e la semiotica del XX secolo che hanno fornito a Agota Kristof, ungherese che scrive in francese, gli strumenti per raffreddare una materia incandescente, un congegno narrativo che rovescia i punti di vista e lascia aperta la questione della verità.
Ho lasciato da parte la letteratura cosiddetta popolare, quella che va incontro alle aspettative del lettore, si serve di lingua e strutture note, e magari risolve l’intreccio facendo trionfare il bene sul male (Eco). Non si tratta solo di letteratura di consumo. Oggi, ormai è opinione comune, gli editori dedicano quasi tutti i loro sforzi a produrre opere che vadano incontro alle aspettative dei lettori, cioè opere che non ci danno altro che già non sappiamo. Scorrete la lista dei vincitori degli ultimi dieci anni del Premio Strega: ci sono anche opere oneste (persino il bene non trionfa) in cui troviamo traccia del nostro esistere, magari leggendole passiamo qualche mezz’ora gradevole, ma alla fine ci fulmina l’idea che avremmo usato meglio il nostro tempo leggendo un Simenon qualsiasi. Lo definirei un realismo gradevole, da cui sembra difficile uscire. Perciò sento di condividere quanto afferma Gabriele Pedullà, del quale non so se in effetti predichi bene e razzoli male: Per paura del ridicolo, cioè manifestare fiducia nelle possibilità della parola, corriamo il pericolo di tagliarci da soli le ali spogliando la letteratura di quella che da sempre è stata una delle sue funzioni principali: farci vedere qualcosa che senza di essa rimarrebbe nascosto.
E tu? Non chiedo al romanzo niente di più di ciò che chiedo a ogni opera d’arte: dammi un nuovo punto di vista e assolutamente una bella forma.
No dico: E tu? Io? Io ci sono. Per il resto taccio.
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