DISCUSSIONE SULLA BOLIVIA. UN PRIMO BILANCIO di Andrea Gorini

Nel notiziario digitale di TeleSur è comparso più volte (insomma, i venezuelani gli hanno dato “peso”) l’articolo dell’intellettuale boliviano Ollantay (http://www.ilgrandevetro.it/articoli/il-processo-di-cambiamento-in-bolivia-di-pablo-solon/ ). Ollantay attacca frontalmente la banda di professionisti dell’indigenismo, del femminismo e dell’“attivismo” -in cui inserisce anche Pablo Solón– i quali non accettano che la caduta di Morales sia opera esclusiva (o quasi) dell’intervento indiretto dell’imperialismo. Esattamente quel Pablo Solón le cui riflessioni critiche sulla involuzione del processo di cambiamento boliviano, estratte dal Mininotiziario dell’America Latina, sono state pubblicate dal Grandevetro (http://www.ilgrandevetro.it/articoli/bolivia-perche-alcuni-intellettuali-hanno-negato-il-colpo-di-stato-di-itzamna-ollantay/).

Ollantay ricorda come Silvia Rivero, Pablo Solón,  Raúl Prada ed altri, avessero dato a suo tempo -e per tutto il periodo nel quale essi hanno occupato incarichi governativi ben pagati- giudizi positivi sul modello di Stato plurinazionale costruito da Morales; mentre, dopo essere stati licenziati (non dunque dimissionari, secondo Ollantay) si sono scagliati contro le politiche e le “forme di potere” del governo: ritenute, da essi, la reali cause della sua sconfitta. La banda è quindi un insieme di traditori, opportunisti marci, eccetera, secondo Ollontay.

In questo (triste) contesto, si può tentare un sintetico bilancio (comunque approfondibile).

Il merito di Solón è evidente: è quello di dire basta col metodo di attribuire all’onnipresenza  “dell’imperialismo” i problemi che i processi di cambiamento sociale non riescono a risolvere. Non sarebbe infatti poco se a questo basta fosse seguita una analisi concreta della contraddizione tra la forma sociale (“capitalismo andino”) verso cui il governo Morales puntava e le condizioni materiali di esistenza nelle quali erano e sono immerse le grandi maggioranze dei popoli originari (piccoli produttori agricoli, artigiani) nel nome dei quali tale “capitalismo andino” si tentava di realizzare.

Invece e però  il merito di Solón finisce qui.  Perché Solón sapeva benissimo (almeno dal 2005) che la” nave” su cui si imbarcava era (appunto) quella del “capitalismo andino” e che dunque la sua “rotta” sarebbe necessariamente entrata in collisione con le condizioni economiche di esistenza dei popoli originari e che questi, altrettanto necessariamente, le avrebbero difese a costo della vita. È accaduto negli anni ’80 con la “Contra” in Nicaragua, e ancora molto prima con i marinai e gli operai protagonisti della rivolta di Kronstadt (Russia, 1921), per citare due soli esempi, lontani nello spazio e nel tempo, che reiterano un fenomeno partorito dalle medesime contraddizioni di classe interne a delle rivoluzioni . . . .

Ma questo aspetto decisivo Solón non l’ha sviluppato (non voleva / poteva svilupparlo).  E dunque la critica che Solón porta a Morales (e a Linera: i due attori che volevano imporre la  “rielezione di due persone nel 2019”) non può che svolgersi sul piano etico-morale-ambientalistico: e da questo piano (che evita l’analisi concreta delle relazioni tra modo di produzione, rapporti di produzione e ruolo, in esse contraddizioni, degli apparati repressivi dello Stato) potersi così permettere di inserire l’assurdità di far balenare (senza cioè entrare in dettagli) per la Bolivia “un no alla nazionalizzazione come soluzione  – un sì alla socializzazione dei mezzi di produzione come soluzione”.

 

 

 

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