DENTRO L’APOCALISSE di Alfio Pellegrini

Sono passati 27 anni dalla prima guerra del Golfo, più di un quarto di secolo. Me ne accorgo e non posso far a meno di rilevare come il tempo corra veloce. Nella mia mente constato una sorta di contrazione temporale per cui non percepisco tanto lontano un avvenimento che per un adolescente di oggi, sono convinto, non esiste neppure. O, se esiste, è perché – caso raro – ne ha sentito parlare dai genitori o dai nonni.
Una volta, nelle vecchie famiglie contadine d’impronta patriarcale, radunati a veglia intorno al fuoco, era frequente ascoltare racconti di fatti più o meno lontani, che venivano così tramandati alle nuove generazioni. Ma, a parte che non avrebbe senso essere nostalgici del patriarcato, ricordo che, da ragazzo, fatti di pochi anni prima come quelli del fascismo o della guerra o della libertà riconquistata, a sentirli raccontare, mi si disponevano in una lontananza mitica, della quale non mi davo ragione.
Oggi, mi sembra, neppure il passato recente, nelle famiglie mononucleari composte da padre madre e uno o due figli, finirà nel patrimonio mnemonico di questi. Considerata una tale lacuna, forse sì, della vita di ieri o di ier l’altro, c’è almeno un aspetto che potremmo rimpiangere.
Alberto Asor Rosa, era da poco finita quella guerra, avvertì l’esigenza di scrivere un libro di poco più di un centinaio di pagine, cui diede il titolo Fuori dall’Occidente ovvero Ragionamento sull’Apocalissi (Einaudi, 1992). La percezione di essere a un passaggio storico decisivo era appartenuta, credo, a tutti coloro che a quella guerra avevano cercato di contrapporre, in continuità con le grandi manifestazioni degli anni Ottanta, il consolidamento del movimento pacifista. La diffusa indifferenza che li aveva accolti era una novità sconcertante. Perfino Norberto Bobbio aveva rispolverato nell’occasione il concetto di guerra giusta, scatenando un acceso dibattito coi suoi stessi “allievi”, che ne avevano seguito i percorsi sulle vie della pace e della nonviolenza.
Asor Rosa concepì un felice accostamento tra la macroscopica sproporzione tecnologica delle forze in campo, delle quali non si sarebbe potuto nemmeno dire che si fossero fronteggiate, e la rilettura dell’Apocalisse di Giovanni. Bastava un’occhiata fugace al numero dei morti che si contavano da una parte e dall’altra (124, i più dei quali colpiti dal “fuoco amico”, dicono i dati ufficiali, contro ca. 100 mila militari e 50-60 mila civili periti sotto i bombardamenti) per comprendere subito che l’accostamento, giocato sull’alternanza dei capitoli – i dispari sulle vicende attuali e i pari, scritti successivamente, sul testo che chiude il Nuovo Testamento -, non era affatto peregrino. L’immagine di una punizione calata dall’alto con freddezza alla stregua di una punizione divina saltava agli occhi.
Un soldato che può solo vincere, era una delle conclusioni di Asor Rosa, non è un buon soldato, è un macellaio. E la guerra condotta con una tale disparità di mezzi non è più guerra, è appunto un’operazione di macelleria, un massacro equiparabile a Hiroshima e Nagasaki. Dentro ci sta anche la rivalsa degli americani, osservava l’autore, sulla bruciante sconfitta subita in Vietnam, la quale rendeva concepibile che gli eterni vinti possono anche vincere; ora non più, la guerra del Golfo è un messaggio esplicito e senza appello, di valore anche retroattivo. Ricostruisce, correggendola, la storia. C’è una sola potenza e non ha limiti. Nonostante la sconfitta, anche in Vietnam la ragione e la giustizia le appartenevano come sue prerogative indiscutibili. Quanto al futuro, si costituisce ora, con questo atto, un nuovo ordine mondiale che non potrà non ruotare intorno al principio assoluto del potere unico da essa impersonato.
Ma il tratto che, a distanza di anni, più mi pare significativo del libro è l’individuazione di una catastrofe interna al processo innescato per questa via nell’Occidente, per cui veniva a trionfare una visione unilaterale, imperiale per definizione (e negatrice di ogni altra visione, comunque concepita, quindi affossatrice della cultura stessa da cui l’Occidente era sorto), che avrebbe diviso, e già aveva cominciato a farlo, l’universo stesso dei bianchi, gli occidentali per eccellenza, trattando una parte di essi come “negri”, ossia come vinti che non avrebbero potuto che essere dei vinti. Allora era quasi ovvio pensare che questo sarebbe stato il destino delle popolazioni dell’Est, sulla via di uscire dall’esperienza per più versi tragica delle dittature comuniste. E anche Asor Rosa a questo anzitutto pensava. Ma il suo libro era concepito in modo più complesso dei semplici riferimenti alla contingenza e, sebbene rispetto a questa le cose siano procedute solo in parte come pronosticato, la differenziazione interna da lui esposta è venuta avanti investendo a pieno l’insieme dei Paesi che dell’Occidente sono costitutivi, travolgendone e svuotandone la tensione critica, dunque la cultura, e aumentando il numero di persone ridotte in condizioni di servitù e di miseria.
«L’‘apocalissi’ si fa domestica, entra nella sfera della normalità e della quotidianità, il terrore si formalizza, da fisico diventa metafisico, da materiale intellettuale e spirituale – scriveva Asor Rosa. – […] L’apocalissi ci scorre sotto gli occhi ogni giorno, – e non ce ne avvediamo. Tutto, in fondo, è così semplicemente e sovranamente chiaro, – e tutto è così indecifrabile ed oscuro. Siamo di fronte al caso veramente straordinario di una ‘rivelazione non rivelata’. Per questo, i massacri son di fronte ai nostri occhi, – e noi non li scorgiamo» (op. cit., p.32).to uno spettacolo elettronico di alta qualità, teso a esaltare rapidità efficacia e precisione dell’intervento, ma aveva eliminato dalla rappresentazione la morte: i 100 mila soldati e i 50 mila civili carbonizzati, sventrati, fatti a pezzi, rimasero fuori campo. Oggi, se è utile a una “narrazione” di comodo, le distruzioni a tappeto, i corpi dei civili colpiti, le colonne di fuggitivi in preda alla disperazione sono anche mostrati, ma passano tra uno show e l’altro, tra una pubblicità e l’altra e, posto che li vediamo, o li dimentichiamo subito o non ce ne importa nulla. Se, di contro, a nessuna narrazione fa comodo esibirli, neghiamo perfino l’evidenza e il massacro non esiste, proprio come non esistono le migliaia e migliaia di esseri umani che perdono la vita nel tentativo di varcare il Mediterraneo in cerca di salvezza.
Ciò che è “fuori dall’Occidente” non ci riguarda, non ci tocca. E le condizioni di miseria che imperversano pure tra noi in base a quel principio della divisione che corre anche tra i bianchi, valido oltre la contingenza, sono il frutto di una differenza di natura, per cui ci sono da una parte gli sfigati (o gli sconfitti) e i vincitori dall’altra. E gli sfigati sono spesso rassegnati e tendono a colpevolizzarsi, perché privi di qualsiasi appiglio discorsivo diverso dalla vulgata. È stata loro tolta anche la speranza, che il potere unico non ammette, riconoscendo solo le regole proprie.
C’è una sola realtà e non ha alternative. C’è un solo dominio e la sua missione è estirpare il Male dalla faccia della terra. Il Male è tutto ciò che, in qualsiasi modo, dall’esterno o dall’interno, si configuri come un limite alla sua onnipotenza.
Dietro la suggestione dell’Apocalisse, è difficile guardare alle esplosioni rabbiose che scattano sussultorie entro l’ordine stabilito da questo dominio e non pensare alle rivolte contadine degli albori dell’età moderna proseguite fino alle soglie del Settecento e finite tutte in luridi massacri.
Non abbonda la disponibilità a farsene consapevoli, ma la guerra è da un pezzo lo stato “normale” del nostro tempo, a dispetto di tutte le promesse del dopo ’89. Non mi pare di avere uno spirito apocalittico, ma nella mia testa martella non di rado la convinzione che, all’apocalisse, ci siamo già dentro.

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