Nei primi giorni di marzo, in decine di carceri di tutto il Paese, si è sviluppata una rivolta che ha coinvolto centinaia di detenuti. Si sono verificati danneggiamenti, aggressioni, saccheggi e manifestazioni di protesta violenta, prendendo spunto dalla ragionevole sospensione delle visite dei famigliari, disposta dalle autorità nell’ambito delle misure di confinamento sociale per l’epidemia Covid-19. In alcuni casi, la sommossa è stata spalleggiata da manifestazioni inscenate nelle strade.
Nel carcere di Foggia si è verificata un’evasione di massa, molto violenta nella sua esecuzione anche all’esterno del carcere. Questo episodio risulta di particolare rilevanza, se si considera che nella Capitanata si sta sviluppando un sistema criminale determinato violentemente a costituirsi come antistato. L’evasione – violenta e di massa – in quel contesto, ha voluto rappresentare un atto di appropriazione del territorio.
La sommossa ha mostrato caratteristiche tipicamente eversive: ideazione e organizzazione centralizzate, coordinamento dei tempi e dei modi, rivendicazione sfrontata del diritto a delinquere. Non ci fosse stata l’epidemia, le organizzazioni criminali avrebbero certamente individuato un altro spunto per questo attacco allo stato, finalizzato non al miglioramento – giusto, necessario e indifferibile – del regime carcerario, ma alla scarcerazione di manovalanza criminale specializzata.
Anche per i capi, spesso ristretti col regime 41bis, Covid-19 ha fornito un utile appiglio per sfuggire alla detenzione, seguendo il percorso aperto dall’abrogazione della figura dell’ergastolo ostativo. Non che ce ne fosse bisogno, ma un argomento in più torna sempre comodo.
Le disposizioni legislative – allo scopo di limitare la diffusione del virus – hanno previsto la possibilità di scarcerazione per imputati e condannati affollati negli istituti, escludendo dal beneficio i detenuti per i reati più gravi, ma non hanno potuto impedire la presentazione delle richieste anche da parte di costoro. Infatti, sono diverse centinaia i casi di mafiosi (delle varie mafie) che in queste settimane hanno chiesto il passaggio dal regime carcerario a quello domiciliare. Per i detenuti ancora sotto processo, la decisione viene presa dal giudice di merito, ma per i condannati definitivi essa spetta al magistrato di sorveglianza, parte terza rispetto al condannato e all’amministrazione carceraria che lo detiene in custodia. Alla prova dei fatti, il procuratore nazionale antimafia ha parlato di “epidemia di scarcerazioni”.
L’epidemia è un altro capitolo della strategia di ricatto e intimidazione della criminalità organizzata nei confronti dello stato.
Di seguito, riproponiamo un nostro articolo di alcuni mesi fa che indicava nella solitudine del magistrato di sorveglianza un punto debole nel contrasto ai ricatti delle mafie.
Ergastolo e vecchi difetti
Nell’autunno dello scorso anno la Corte europea dei diritti umani ha sentenziato che la legge italiana che ha introdotto il cosiddetto ergastolo ostativo va riformata in quanto viola i diritti umani, limitando eccessivamente le prospettive di rilascio del condannato e di revisione della pena. Nello stesso periodo, la nostra Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale la stessa norma, in quanto essa vieta – in maniera assoluta – che si possano concedere, a particolari categorie di ergastolani, alcuni benefici generalmente previsti per i detenuti a vita.
Attualmente, nella generalità dei casi, il giudice può concedere – discrezionalmente, sulla base della di lui condotta – dei premi a un ergastolano; non può farlo – nel senso che è fuori dalla sua discrezionalità – quando si tratti di condannati per particolari reati e che non abbiano attivamente collaborato con la giustizia. Trattandosi di reati di natura essenzialmente associativa, la collaborazione consiste nel fornire agli organi di giustizia reali e utili elementi di conoscenza sull’organizzazione criminale. L’ostacolo assoluto non deriva, quindi, dal comportamento in carcere del condannato, ma dal suo rifiuto di collaborare alle indagini. Per cui si devono negare i benefici a condannati non collaborativi, anche se tengono comportamenti ineccepibili nella vita carceraria. Peraltro, bisogna ricordare che, per singoli casi individuali, è possibile ricorrere all’istituto della grazia.
La Corte prende atto del fatto che la legge prevede, in generale, provvedimenti premiali nei confronti degli ergastolani e, di conseguenza, non ammette che sia possibile un pregiudizio negativo assoluto nei confronti di alcuni di essi.
Questo pronunciamento va visto alla luce dei passi della Costituzione che prevedono l’uguaglianza di «tutti i cittadini di fronte alla legge» e che «le pene […] devono tendere alla rieducazione del condannato». Risulta che la Corte si sia significativamente divisa su questa sentenza, per cui si può ragionevolmente affermare che, in termini di dottrina, le posizioni diverse che si confrontano abbiano pari dignità.
Qui poniamo la questione da un altro punto di vista, assumendo come riferimento, oltre agli indifferibili principi costituzionali, il contesto storico e civile della nostra nazione.
Guardando bene, la Corte si limita a cancellare il criterio ostativo in quanto assoluto, allargando la discrezionalità del giudice – nella concessione dei benefici – anche agli ergastolani non collaborativi. Esaminando caso per caso, li concederà o li negherà secondo il proprio giudizio. In questo modo, però, la Corte ha valutato di dover ignorare i principi di opportunità civile e di sicurezza sociale che stavano alla base dell’ostacolo assoluto previsto dalla norma in esame.
La Costituzione prevede esplicitamente che, per i delitti, venga comminata una pena e che essa debba tendere alla rieducazione del condannato. Non dice che dalla rieducazione (ammesso che si possa accertare) debba derivare necessariamente un’attenuazione della pena. La legislazione, quando prevede – in via generalizzata – meccanismi di premio, ne fa dipendere l’attuazione dal giudizio discrezionale di un magistrato e la giurisdizione agisce, comunque, nel quadro di precisi riferimenti normativi e di oggettivi comportamenti del condannato.
La Costituzione italiana e lo spirito umanistico della nostra civiltà danno per scontato il carattere afflittivo della pena, in particolare di quella detentiva. Si può ritenere che il tempo della carcerazione debba essere quantomeno necessario al perseguimento della rieducazione e che, oltre al suo carattere meramente punitivo nei confronti del condannato, ne abbia uno di deterrenza e di difesa sociale diretta.
Oggi, le norme che ostacolano in modo assoluto la concessione dei benefici, in qualche modo, individuano un criterio oggettivo nell’accertamento della rieducazione del condannato e comunque vogliono costituire una doppia protezione: nei confronti della società – escludendo dalla cittadinanza libera una persona potenzialmente delinquente – e nei confronti della giurisdizione che vede così ridotta la propria discrezionalità, ma anche il margine di errore e l’esposizione personale dei magistrati.
Per quanto riguarda il primo aspetto, consideriamo che il contesto materiale reale nel quale agiamo è l’Italia, con la sua storia e la sua attualità, con le sue ampie componenti criminali connesse con il corpo dello stato, con la sua debole coscienza civile. Ergastolo e meccanismi premiali per i collaboratori di giustizia costituiscono, per lo stato e la comunità nazionale, strumenti di straordinaria e provata efficacia nel contrasto delle organizzazioni criminali. I loro capi hanno esplicitamente espresso la propria opposizione a questi istituti, indicandoli pubblicamente come elementi essenziali della propria strategia nei confronti del mondo politico. La tenuta dell’assetto ordinamentale, culturale, istituzionale e organizzativo, nel contenimento delle organizzazioni criminali, costituisce – nella realtà italiana – la componente principale per lo sviluppo economico del paese e per la conservazione del quadro costituzionale. Infatti, la forza e la penetrazione diffusa delle organizzazioni criminali minano il cuore della Repubblica – fondata sul lavoro – pregiudicando permanentemente i suoi principi fondamentali e le libertà della cittadinanza. Infatti, nel processo di liberazione dalla rete in cui è costretto dalla criminalità organizzata e dalla cultura della corruzione che le è consustanziale, il paese può liberare risorse economiche e sociali per il proprio sviluppo.
Per quanto riguarda il secondo aspetto, osserviamo che il magistrato di sorveglianza è una figura caratterizzata da una solitudine particolare, nell’ambito della giurisdizione. Nel corso delle indagini e nell’iter processuale, le forze di polizia e la magistratura agiscono come corpo collettivo dello stato nei confronti dell’imputato, sulla base del fatto concreto costituito dal delitto che resta la motivazione centrale dello scontro giudiziario. Nel giudizio sulla concessione discrezionale di un’attenuazione della pena, al centro del confronto c’è la persona del condannato. Per così dire, è uno versus uno. In presenza dell’istituto dell’ergastolo ostativo, la discrezionalità del magistrato decade di fronte alla condizione di assoluto divieto di accesso ai meccanismi premiali e si annulla la possibilità di un suo condizionamento. Di fronte alla capacità di pressione e intimidazione delle organizzazioni criminali, probabilmente tutti i nostri giudici si dimostrerebbero della stessa pasta di Coco, Saetta o Livatino: ma perché la legge deve portarli al sacrificio eroico?
(Giulio Rosa)
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