Oratores, bellatores, laboratores. Il vescovo Adalberone di Laon (vissuto tra il 947 e il 1030), lo si impara da tutti i manuali di storia e di letteratura, distingueva nei tre suddetti ordini la società altomedievale – chi prega, chi combatte, chi lavora –, società semplificata all’osso, prevalentemente stanziale e campagnola, dato lo spopolamento delle città; in realtà le cose erano molto più articolate, ma questa è un po’ la vulgata generalista, non senza qualche ragion d’essere. L’Europa aveva attraversato profonde e difficili trasformazioni: dalla globalizzazione del tardo impero romano, alla parcellizzazione dei poteri, da economie interrelate, agli spazi chiusi della curtis, e via dicendo. Oggi certo le merci circolano, l’economia continua a girare, come le informazioni, anche se il diffondersi della pandemia ha obbligato legittimamente i governi, in diverse aree del pianeta, a confinare le persone non solo nel perimetro dei propri stati, ma anche delle proprie case. Può essere oggi un esercizio suggestivo, in questa emergenza che ha sgretolato, o meglio sospeso temporaneamente, le forme di socialità e spopolato la polis, provare a rileggere la società applicando, mutatis multis mutandis, queste tre categorie. Una società che, nella sua evidenza odierna (pur mantenendo differenze e complessità profonde), appare più omologata in superficie, visto che molti cittadini sono deprivati delle loro prerogative professionali o comunque si trovano ad esercitarle in forma “smart” dal proprio domicilio; per non parlare di chi ha dovuto chiudere del tutto i battenti, o rischia di vedersi compromessa per sempre l’attività messa ora in stand-by. E, in ogni caso, disoccupato, cassintegrato, in smart working, sta in casa. Non dico che non fosse necessario dato il rischio di collasso del sistema sanitario, l’incidenza letale della malattia (ricordiamo magari che le autorità sono state molto meno incisive e ben più tolleranti verso patologie, come cancri e leucemie, legati in molti casi a condizioni ambientali in nome dello sviluppo; ma questo è un altro capitolo), le numerose incertezze circa il nuovo agente patogeno. Però lo stato d’eccezione tale deve restare, e noi sopportare ma non abituarci. I diritti politici, nell’emergenza, non si praticano, quelli civili, ancorché fissati su carta, non sono di fatto né riconosciuti né applicati, salvo nella forma liquida e virtuale del web dove c’è libertà di stampa e di associazione, ma senza contatto diretto. Ognuno prega la divinità che preferisce, ma non nei luoghi di culto, perché il divieto di assembramento vale per tutti i devoti, compresi i cattolici. Quindi, in pubblico niente oratores. Se però si risale al senso latino classico di orator, “persona che esercita l’ars dicendi”, chi parla di mestiere c’è: i politici, la cui parola è performativa, è parola-azione, cioè si traduce speditamente in norma, o è dichiarazione (demagogica o meno) che comunque, pur non strutturandosi in legge, sortisce degli effetti nella percezione collettiva; ci sono i giornalisti, che non si limitano a rendicontarci quotidianamente la contabilità di morti, infettati, guariti (Deo gratias, ci sono anche quelli, senza contare i malati invisibili e asintomatici), ma aprono a ragionamenti più complessi e articolati e ci ricordano che esiste anche “altro” (e che nel mondo si muore non solo di coronavirus), così come intellettuali e scrittori, che non mancano di offrire letture del presente. In tanti ci improvvisiamo oratores nei nostri social, nelle chat. E poi c’è chi orat nel senso adalberoniano, a partire dal papa, che, quando si fa orator anche nel senso ciceroniano, spesso esprime considerazioni che merita ascoltare.
Veniamo alle altre categorie. È oltremodo facile identificare i laboratores: gli operai che, ora in quantità minore dati i recentissimi accordi sindacali, rischiano tutti i giorni, e non solo per il coronavirus, ma per tutti gli incidenti sul lavoro che capitano anche in tempi normali, con l’aggravante, magari, di trovarsi, nell’attuale emergenza, le rianimazioni intasate nel caso di infortunio grave; i lavoratori del comparto agroalimentare, in tutti gli anelli delle filiere fino al commercio al dettaglio e alle casse dei supermercati, i riders, i ferrovieri e gli autisti nei servizi dei trasporti, gli impiegati delle poste, gli addetti alla nettezza urbana, i farmacisti, e via e via; e, naturalmente, le pompe funebri (ma senza “pompa”). Ancora i benzinai, i tabaccai (perché il tabacco e il “gratta e vinci” sono ritenuti essenziali, a differenza dei libri; meno male lo stato ha sempre a cuore la nostra salute!), gli edicolanti. E poi, anzi prima di tutto, i medici e gli infermieri, tutti gli operatori sanitari. La narrazione di questi giorni li assimila spesso ai guerrieri al fronte, ma in realtà sono persone, che, con grande dedizione e serietà deontologica, stanno svolgendo la loro professione; in condizioni estreme, difficili, con turni massacranti e gravi rischi personali, in molti casi scontando una vergognosa carenza di tutele. Meritano il nostro rispetto proprio perché sono dovuti diventare eroi senza averlo scelto, “eroi per caso”, titolava “Il Manifesto” qualche giorno fa; e, ci ricordava Brecht, “sfortunata la terra che ha bisogno di eroi”. La narrazione pubblica ha così anche la sua agiografia, fino, purtroppo, al martirologio (ma nel senso vero: medici che testimoniano la loro serietà e fedeltà al giuramento di Ippocrate, anche a costo della vita, come vediamo nelle cronache di questi giorni).
E anche tutti gli altri cittadini attivi espropriati dello spazio pubblico (l’uomo è un animale politico, cioè abitante della polis) e della propria attività, nella narrazione corrente sono divenuti abili e arruolati bellatores, invitati, dal martellamento dei media, a sentirsi tali, cioè combattenti contro il virus dalla trincea del loro divano di casa, a vigilare dalla terrazza la frontiera del loro isolato; chi abusa della licenza di uscire (magari in una strada diserta e cambiando marciapiede per schivare un altro simile) è un disertore, e in tempi di guerra la diserzione è punita e il disfattismo colpevolizzato. Ci sono poi i bellatores veri e propri, le forze dell’ordine, che presidiano sempre più le strade e le piazze, qualcuno magari in imbarazzo a multare un clochard (i senzatetto e gli sbandati sono oggi gli invisibili divenuti visibili), qualcun altro felice di sdoganare finalmente il proprio fascismo represso e vedere esaudito il desiderio “d’ordine” nella sua forma parossistica: il deserto umano (ubi solitudinem faciunt “salutem” appellant, verrebbe da citare, ancora mutatis multis mutandis, l’antico Tacito,). E non escluderei, visto le denunce ai vigili che stano fioccando in questi giorni, che qualche esaltato tra i bellatores delle retrovie, cioè del divano di cui sopra, cominci a invocare la pena di morte per il vicino spiato all’angolo o il passeggiatore solitario; anzi, magari con procedura sommaria, lasciando il cadavere per le strade. Mi è capitato di passare dalla stazione di Firenze nei giorni scorsi (sempre rigorosamente per giustificato motivo e munita di autocertificazione), e mi è venuto un flash terribile: la città (il set era Milano in quel caso) del film I cannibali di Liliana Cavani – rifacimento in chiave sessantottina e anticapitalista del mito di Antigone –, nell’inquadratura iniziale: strade vuote, disseminate dei cadaveri insepolti di chi aveva violato gli ordini. Eppure davvero persone che esaltavano il pragmatismo giustizialista dei cinesi le ho sentite: lì sì che hanno sconfitto il corona, esecuzioni per chi disobbediva… Per lo meno, se sopportiamo tutto questo, magari saremo più temprati per le grandi o piccole rivoluzioni future, ché la carcerazione (magari agli arresti domiciliari) ci fa meno paura. E meno male i cubani non hanno chiuso le frontiere, né i medici nei loro ospedali.
Commenta per primo