Agostino Pirella e la crisi della psichiatria
Il 29 ottobre scorso è scomparso a Torino, dopo una lunga malattia, il Prof. Agostino Pirella. Era stato uno dei protagonisti della rivoluzione psichiatrica italiana, fin dagli anni dell’ospedale psichiatrico di Gorizia, dove la storia della riforma è iniziata, in cui aveva lavorato, dopo l’iniziale formazione professionale e politica a Mantova, come aiuto di Franco Basaglia assumendo la direzione dell’ospedale quando quest’ultimo si era trasferito a Parma e poi a Trieste.
Agostino nel 1971 era diventato direttore dell’O.P. di Arezzo e qui, grazie anche alla presenza di un assessore illuminato e appassionato come Bruno Benigni, aveva iniziato una delle esperienze più significative e radicali di deistituzionalizzazione mai realizzate in Italia. A partire dalla chiusura dell’O.P. e alla contestuale apertura dei servizi di Igiene Mentale Territoriali, di cui Pirella era anche direttore, la deistituzionalizzazione aveva investito le strutture emarginanti del territorio: dalla scuola, con l’eliminazione delle classi speciali e differenziali, alle strutture residenziali per anziani e disabili individuate come luoghi di emarginazione e segregazione delle persone più fragili e indifese. Tutto questo complesso processo si era svolto con una intensa partecipazione dei soggetti coinvolti: dalle assemblee generali in ospedale psichiatrico in cui ai degenti, materialmente, veniva restituita la parola affinché potessero esprimere i loro bisogni e ritornare protagonisti delle loro vite, alle assemblee in piazza, con cittadini e amministratori, per discutere i programmi di chiusura del manicomio. Una esperienza di democrazia partecipativa che non ha più trovato uguali in altre esperienze italiane. Dopo Arezzo – che per i suoi meriti gli aveva conferito la cittadinanza onoraria nel ’79 – Pirella si trasferisce a Torino dove, da sovrintendente agli ospedali psichiatrici, ne guida la chiusura e assume la responsabilità dell’Ufficio salute mentale della Regione Piemonte.
Pirella era Presidente onorario di Psichiatria Democratica e docente di Psichiatria all’Università di Torino.
Oltre che per il lavoro pratico, Pirella era un punto di riferimento per tutto il movimento psichiatrico democratico: la sua cultura, il suo rigore e la sua capacità di analisi gli consentivano di leggere gli sviluppi che stava assumendo la salute mentale dopo la 180 con largo anticipo: Pirella aveva uno “sguardo lungo” come Basaglia.
Fin dagli anni ’80 – ’90 aveva denunciato la deriva neo-istituzionale che i servizi di salute mentale, al di là di oggettive difficoltà, stavano assumendo con il ricorso a nuove (ma sempre vecchie) forme di manicomialità, con ricoveri presso strutture specialistiche – le comunità terapeutiche – che di fatto allontanavano la sofferenza psichiatrica dai luoghi dove si era prodotta e dai servizi che la riforma aveva designato alla loro gestione; con un acritico ricorso alla prescrizione farmacologica – anche nei bambini – come unica risposta alla sofferenza psichica; con l’oggettivante ricorso alla diagnosi per accreditarsi come moderni specialisti allineati con i vari Manuali Diagnostici Statistici (DSM IV e V); con la diffusa pratica della contenzione e della segregazione (leggi porte chiuse) nei servizi di diagnosi e cura; con la passiva accettazione dell’aziendalizzazione e dell’economicismo che ha investito il SSN: tutti indizi – anzi prove – di uno strisciante neo-manicomialismo diffuso.
Purtroppo la malattia ci aveva privato da alcuni anni della voce diretta di Pirella che sarebbe stata tanto più necessaria in un momento come questo, in cui il disastro cui è andata incontro la salute mentale è sotto gli occhi di tutti: la sua credibilità e autorevolezza avrebbero contribuito a contenere questa deriva.
Si è sempre detto che la riforma psichiatrica si presentava, nella sua attuazione a macchia di leopardo, a significare che in alcune realtà la riforma aveva trovato una applicazione coerente, mentre in altre, la maggioranza, questo non si era verificato, senza tuttavia approfondire i motivi di queste differenze.
La recente pubblicazione del Rapporto sulla Salute Mentale 2015 a cura del Ministero della Salute ci mostra un quadro in cui le disuguaglianze (le macchie di leopardo) si sono accentuate fino ad indurre il timore di “cure a rischio per la salute mentale”, come riferito dal Sole 24ORE (Sole 24ORE-Sanità, 26 settembre 2017); l’analisi dei dati fatta dalla Società Italiana di Epidemiologia Psichiatrica mostra infatti, in linea generale in varie Regioni, una preoccupante prevalenza degli interventi ospedalieri/residenziali a scapito di quelli territoriali: un rovesciamento della prassi introdotta dalla 180.
Per segnalare solo i dati più critici sul piano nazionale, il personale dei dipartimenti di salute mentale si è dimezzato passando dalle 0,8 unità/1000 abitanti del 2001 alle 0,4/1000 del 2014; la spesa per la salute mentale fissata dal Progetto obbiettivo nel 5% del Fondo Sanitario, si attesta mediamente al 3,5; i posti letto residenziali si sono triplicati rispetto al 2001.
Appare evidente che più di altre specialità la Salute Mentale ha risentito delle difficoltà del SSN che in questi anni è andato incontro a un progressivo de-finanziamento; a una progressiva perdita di risorse di personale attraverso, per es. il blocco del turn over (una sostituzione ogni 4 posti liberati); ad una progressiva limitazione del suo ruolo “pubblico” con il ricorso sempre più frequente al terzo settore profit e non profit.
Ma dove emerge ancora più evidente lo scostamento dallo “spirito” oltre che dalla lettera della 180 è dall’esame delle sedi dove le prestazioni vengono erogate: per il 76% è l’ambulatorio (e in ambulatorio prevalentemente cosa si fa? Si prescrivono farmaci, non deve quindi stupire se il loro consumo è in costante aumento!), per l’8% il domicilio, il resto (13%) in altre sedi.
Appare evidente che la proiezione territoriale che aveva qualificato le esperienze di salute mentale all’epoca della 180 (al punto che secondo molti esperti quella “psichiatria di iniziativa” è servita da modello per quella che oggi si chiama la “medicina di iniziativa”), la psichiatria proattiva che si declinava nei “luoghi di vita e di lavoro” dei pazienti non esiste più, così come la possibilità di intervenire in quelle situazioni a rischio di esclusione che tuttora esistono sul territorio: si preclude così la possibilità di realizzare non solo una salute mentale nel territorio ma del territorio (si pensi al grande progetto di deistituzionalizzazione diffusa promosso da Pirella ad Arezzo con la chiusura del manicomio cui si è accennato prima).
Sulla tendenza a nuove istituzionalizzazioni della sofferenza psichiatrica, tendenza comune a tutti i paesi europei ma che in Italia la 180 avrebbe dovuto contrastare, Pirella aveva già attirato l’attenzione negli anni ’80, ma oggi, anche attraverso il ricorso a strutture residenziali del terzo settore profit e non profit, questo trend appare inarrestabile e si riflette negativamente sulla spesa: per l’assistenza residenziale si spendono annualmente, in migliaia di euro, 1.441.837 mentre per l’attività territoriale 1.639.659, come si vede le cifre sono pericolosamente vicine e naturalmente se si spende da una parte non ci saranno più investimenti dall’altra.
In conclusione se non si vogliono mettere a rischio le cure psichiatriche e la salute mentale, bisogna tornare alle origini della riforma, a quella che Agostino Pirella, nel 1979, indicava come la peculiarità dell’esperienza italiana: la chiusura del manicomio e la socializzazione degli emarginati adulti e minori. Ieri la chiusura del manicomio, oggi quella dei nuovi manicomi con l’apertura dei Diagnosi e Cura e l’abolizione della contenzione; allora la lotta alle scuole speciali e agli istituti per disabili, oggi la lotta alla neoistituzionalizzazione in istituti e strutture specialistiche lontane dalla vita e dalla comunità dei loro ospiti; ora come allora una psichiatria proattiva nel territorio dove incontrare i nostri pazienti protagonisti/attori del loro progetto di cura: questo ci dice ancora oggi Pirella.
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