TURNO IN PRONTO SOCCORSO di Andrea Sampieri

Tra i contributi che ci stanno arrivando per il prossimo Grandevetro dedicato a sanità

 e salute, c’è questa cronaca, molto realistica, da un Pronto soccorso, che volentieri pubblichiamo

Leonardo La Barbera, Dopo il fuoco, 1997

*

“DRRR-DRRR”.  Non fanno più “RING-RING” i telefoni di servizio.

“DRR-DRRR, DRRR-DRR”,  insistente ed incurante dell’ora, il portatile avrebbe continuato per sempre, ma di scatto con una mano gli sono già sopra, lì dove lo avevo posato quel telefono della tortura:

“Sì ??”

“Dottore, abbiamo un rosso”.

“Cos’è?”

“Torace e addome”

Una breve pausa per prendere fiato: “ Porca-puttana-miseria-ladra,  e che cos’è?”

“Dolore toracico acuto”.

Ma quanti anni ha?

“61, è un maschio”

“Ma che ore sono ?”

“Le quattro e venti”

“Ma daiiii!! E’ il solito che si è abbuffato  e poi stanotte a letto, supino gli è venuto il reflusso gastrico, ed ora ha dolore al petto!!!”

“Non lo so, dottore” mi risponde serio L, il tecnico radiologo di turno con me stanotte.

Tranquillamente aggiunge: “Ne parli con la dottoressa ”

“E dov’è?” dico io.

“Ce l’ho qui, gliela passo?”.

“Cavolo” penso: è già lì nella sala comandi della TAC con il tecnico; allora è preoccupata sul serio.

“Ciao, A”

“Ciao, Maria Grazia, dimmi tutto, che c’è stavolta? Non sarà mica come quello di prima che aveva la recidiva di colica renale e mi hai chiesto l’ecografia urgente, vero?”

“No A., lo sai le TAC io te le chiedo poco, e quando le chiedo è perché non ne posso fare proprio a meno”.

Se domandate ad un medico dell’emergenza di turno in PS perché chiede una TAC, ti risponderà sempre: perché non ne poteva fare proprio a meno e che lui è contrario all’uso anzi abuso di tutte queste TAC, aggiungendo che sono radiazioni inutili e non servono quasi mai per la diagnosi; infatti quello che conta, lo sanno tutti, è la clinica e se lui la chiede è solo perché il paziente o il familiare insiste e declama la fatidica frase: “Dottore, ma se facessimo una TAC, lei che ne pensa?”. Il dottore si trova così di fronte un intricato nodo medico (…e legale) che inevitabilmente potrà sciogliere solo in un modo, e cioè facendo la richiesta dell’ormai  inevitabile esame radiologico. E così partono le richieste della TAC: traumi, mal di testa, vertigini, intossicazioni, dolori al torace, broncopolmoniti, febbri sconosciute, anemie, per non parlare poi dei dolori addominali…allora sì che fioccano le richieste: diverticoli, ascesso, colecistite, pancreatite, subocclusione, occlusione? … E se poi il paziente  ha…. un tumore? Praticamente qualsiasi quesito clinico (parola grossa, oramai basterebbe più propriamente dire sintomo, data la irrimediabile svalutazione della visita medica) giustifica la richiesta della TAC. Uomini, donne, vecchi ed ormai anche i bambini non si possono più sottrarre all’esame principe della radiologia moderna: la TAC !

Questa mia breve digressione, non vuole però mettere in cattiva luce il lavoro dei miei colleghi medici “prontosoccorsisti”, anzi. Loro, rispetto a noi radiologi, hanno delle gatte da pelare peggiori delle nostre: il paziente o meglio, come si dice oggi in ambito sanitario, pubblico, “l’utente” è tutto sulle loro spalle!

“Aspetta, Maria Grazia, arrivo”.

Così nel semibuio dei monitor accesi della stanza mi infilo gli zoccoli, mi metto gli occhiali, mi tiro su da questa specie di lettino mezzo scassato ed evitando lo spigolo della scrivania apro la porta ed esco nella luce abbagliante dei neon del corridoio.

Puntigliosamente Maria Grazia mi racconta: “E’ venuto per un dolore toracico, è giovane, 61 anni, lo sai per la media dei nostri pazienti abituali è molto giovane, gli ho fatto l’eco-cuore, gli esami del sangue e gli enzimi che sono tutti negativi. Gli abbiamo somministrato il Perfalgan e la Ranitidina in vena, ma non è migliorato molto. Inoltre è lievemente tachicardico ed ha una storia di ipertensione”.

“Come me”, aggiungo io che dopo quell’improvviso squillo del telefono in mezzo alla notte avevo ancora il cuore in gola e le tempie che mi pulsavano.

Seguirono le classiche frasi preparatorie al rito della TAC: “Com’è la creatinina ?”

“Buona”

“Ha mangiato da poco ?”

“No”

“E’ diabetico?”

“No”

Ed infine la domanda principe:

“E’ allergico?”

“Dice di no e non è asmatico”.

Non c’è dubbio Maria Grazia si era  preparata, e conseguentemente il mio spazio discrezionale era diminuito drasticamente.  A quel punto con uno scatto di orgoglio e soprattutto per non sembrare indeciso agli occhi della mia interlocutrice, decido di prendere in pugno la situazione e con fermezza dico:

“Va bene, fallo venire subito mi raccomando, perché così non facciamo mattina, e vediamo che cosa ha sto’ rompiscatole!”

Un sorriso si accese sul volto serio di Maria Grazia e con un sussurro vicino alla guancia mi rispose “Grazie! Volo !”

A quel punto mi girai verso il tecnico L. ed aggiunsi : “Speriamo davvero non sia allergico perché senno il cuore stavolta glielo facciamo saltare noi ! E sinceramente non mi andrebbe di passare dei guai per l’indigestione di un bischero !”

Poco dopo il corridoio deserto e silenzioso si animò con il rumore di un letto che si stava avvicinando spinto dal composito gruppetto costituito dal  personale ausiliario, dall’infermiere e dal medico,  con la solita musica di accompagnamento delle macchine che monitorizzano i parametri vitali dei malati : “Ding-Ding, Ding-Ding”. L  aprì la porta della TAC, il paziente entrò nella sala ed io mio avvicinai al letto del malato. In quel momento tutti si fermarono e rimasero in attesa. Rivolsi lo sguardo verso di lui e dissi :“Buonasera, come si chiama?”.

Apro una parentesi. Lo so che era quasi giorno, ma con che cavolo di parola ci si rivolge ad una persona sconosciuta quando fuori è ancora buio in una situazione del genere? “Buongiorno : bella mattina ?”

“Buonasera, ….Aldo” rispose con la mascherina dell’ossigeno e con una voce un po’ in affanno.

“Ascolti, Aldo, le hanno spiegato perché è qui e perché deve fare questo esame ?”, dissi cercando di usare un tono di voce che voleva essere contemporaneamente serio ma non troppo preoccupante.

“Qualcosina…”

“Dunque, allora …” Non volevo perdere troppo tempo e volevo andare al punto, ma trovare le parole giuste per cercare di spiegare un esame che poteva essere decisivo per la sua salute, ma che contemporaneamente poteva a volte creare dei rischi (anche seri), non è proprio facile, come invece viene riportato nelle circolari delle direzioni sanitarie. “Stavo dicendo che questo esame serve per vedere i suoi vasi del torace e dell’addome, in particolare serve per visualizzare la sua aorta che, come le avrà già detto la dottoressa,  c’è il sospetto si possa essere un po’ lesionata a causa di uno sbalzo pressorio, e che quindi sia la causa del dolore che sente al torace”.

Aldo mi guardò, annuì e contemporaneamente fece per tirarsi un po’ su dalla posizione semiseduta in cui stava nel letto.

Continuai: “L’esame è piuttosto semplice, non dura molto e non è doloroso, semmai all’inizio sentirà un po’ di calore: è il mezzo di contrasto che noi le inietteremo in una vena del braccio e che appunto serve per vedere la sua aorta”. Ed infine arrivai al punto: “Come tutte le cose però ci sono dei rischi, rari,  ma ci sono ed è per questo che io devo avere il suo consenso ad eseguire l’esame “.

“Cioè, posso anche morire?”.

A quel punto dopo quell’ affermazione, anche il più vecchio e smaliziato radiologo dentro di sé un po’ vacilla.  Non volevo banalizzare l’esame tranquillizzando il paziente con un “Nooo, ma che dice mai…!” Ma neanche recitare a memoria tutte le possibili controindicazioni ed eventuali complicanze dell’esame, molte delle quali – sfido anche il malato più preparato del mondo – sarebbe stato in grado di capire in quelle condizioni, ad un passo del lettino della TAC!

Così me ne uscii con: “No, di solito no!” e sorrisi per sdrammatizzare.  Lo so, è una frase un po’ stupida, ma a quella aggiunsi, in maniera più rassicurante possibile: “Io però se fossi in lei me la farei”. La dott.ssa Maria Grazia annui, seguita da tutti gli altri presenti cosicché anche Aldo con partecipazione mosse la testa in modo affermativo dicendo: “E va bene, facciamola”. Gli porsi subito la penna per firmare il breve modulo del consenso informato.

Il passaggio di un paziente allettato al lettino della TAC non è un’operazione semplice, soprattutto se il malato per le sue condizioni cliniche non è capace di muoversi, ha attaccati flebo, cateteri, elettrodi collegati ai monitor, bombole d’ossigeno e chi più ne ha più ne metta. E’ una manovra delicata ed in urgenza gli operatori si devono coordinare tra loro aiutando il paziente e facendo attenzione a non causargli possibili danni o a non far cadere le apparecchiature. Aldo fortunatamente collaborava ed eseguimmo il passaggio tra i due letti in modo rapido e senza inconvenienti. Tutti gli operatori lasciarono la stanza spostandosi nella sala comandi della TAC. Così accanto al paziente rimanemmo io, che collegavo la flebo del mezzo di contrasto all’ago-cannula del braccio del pz, e L, che lo posizionava all’interno del “Gantry” della macchina (il tunnel della TAC) alzandogli le braccia e centrandolo nel punto giusto, muovendo il lettino con gli appositi tasti. Finite queste operazioni rientrammo anche noi nella saletta di controllo e L si sedette alla consolle di comando della TAC e rapidamente inserì il protocollo.

“Protocollo Angio-Tac aorta, no?”

“ Certo” risposi.

“ Dopo quanto parto, Maggio’?” disse L con un sorrisetto.  Conosceva il mio “passato militare” ed essendo stato uno degli ultimi soldati di leva gli piaceva nei momenti “operativi” chiamarmi con il mio vecchio grado. Lo faceva di solito con un tono che era una via di mezzo tra la complicità di due che avevano vissuto la vita militare e l’ironia su una cosa che ormai non c’era più, era passata e non sarebbe mai più tornata, come la nostra giovinezza. Per un istante ci guardammo, pensierosi, eravamo lì: dietro di noi una piccola folla di sanitari che osservava attentamente le nostre mosse, davanti, al di là del vetro della sala comandi il malato steso su un lettino della TAC. Gli risposi seraficamente “Mi fai sempre le stesse domande, L, lo sai già, quante altre centinaia di volte l’abbiamo fatto?”

“Volevo vedere se era preparato, Maggio’ !” disse ridacchiando L.

“Ma va’, va’, e inserisci lo SMART-PREP, che poi partiamo quando vediamo il picco del mezzo di contrasto“.  Aggiungo per i comuni mortali che lo Smart Prep è un dispositivo computerizzato che permette di monitorare in tempo reale l’arrivo del mezzo di contrasto in un determinato distretto anatomico del paziente, potendo così iniziare l’esame nel momento esatto dell’arrivo del contrasto nella sede da indagare, cioè in questo caso nell’aorta.

Inserii i dati nella consolle di comando dell’iniettore del mezzo di contrasto e schiacciai il tasto che dava l’avvio all’iniezione. Il grafico visualizzò immediatamente il flusso del farmaco e quando la concentrazione salì al punto giusto il computer della TAC rilevò il picco nell’arteria di Aldo e dette il via alla scansione.  Aldo strinse i piedi. Era un riflesso comune come quando si va dal dentista, e significava che il mezzo di contrasto era arrivato in vena. Poi si rilassò.

Nel frattempo nel monitor della TAC cominciavano ad arrivare le immagini in tempo reale: l’aorta  toracica e poi quella addominale si stavano riempendo di contrasto e si stagliavano, brillanti, come un’ improvvisa accensione di tubi al neon, nel corpo di Aldo. Io guardavo il paziente attraverso il vetro per assicurarmi che stesse bene, e contemporaneamente osservavo il monitor della TAC. In pochi secondi era tutto finito. L’aorta era stata visualizzata in tutto il suo decorso e, come si guarda passare un treno al passaggio a livello, così il mezzo di contrasto era passato nel vaso del paziente e dopo un attimo era tutto finito.

“Allora?” fu l’esclamazione di Maria Grazia a risuonare nel silenzio irreale che si era creato per pochi secondi in quel luogo, e che mi fece sussultare sullo sgabello.

“Non lo so… mi sembra che…un attimo che vedo…” le solite frasi che escono a mozziconi mentre chino sulla consolle di comando recupero le immagini per analizzarle cercando di essere calmo per non dare l’impressione che fino a quel momento non avevo visto niente di particolare.

Ancora Maria Grazia, impaziente: “Allora è negativo?”.

Mi girai con l’occhio truce fulminandola: “Sono quasi 500 immagini che devo vedere, me lo darai un attimo di tempo per non dire puttanate, o no?”

L mi interruppe con la fatidica frase che tutti i tecnici di radiologia rivolgono al loro radiologo quando hanno eseguito un esame: “Dotto’, lo levo?” (intendendo il paziente dalla TAC).

“Be’, sì, credo… l’esame è venuto bene, dai, sì, toglilo, va’ !”

Immediatamente tutto il gruppetto di infermieri ausiliari ecc. entrò in un baleno nella sala della TAC, smontando la flebo, togliendo il monitor dei parametri vitali, alzando la bombola di ossigeno e spostando di nuovo il paziente dal lettino della TAC sulla barella, rimontando poi il tutto e portando via il paziente di nuovo nella stanza dei codici rossi.

Ogni volta che assisto a questa scena rimango sempre affascinato: mi ricorda un “pit-stop” della formula uno. Tutti gli operatori si accalcano operosamente sul paziente ognuno con ben chiaro in mente quello che deve fare, per poi tutti insieme alzare il malato trasbordandolo e poi sparire nel nulla. Manca solo il rumore degli avvitatori dei pneumatici… L’unico suono resta per pochi secondi sospeso nell’aria ovattata è il “ Ding-Ding” dei macchinari che si affievolisce lentamente sparendo poi nel nulla.

“Che dici?” Maria Grazia stavolta si era avvicinata con il volto sfiorando il mio avvicinandosi al monitor. Sentii il suo tenue profumo e la guardai un po’ da sopra gli occhiali.

“Non lo so, sembrerebbe negativo…Voglio riguardare con calma le prime immagini dell’aorta toracica quando emerge dal cuore”

“Sì, fai pure, mi disse,  tanto il paziente è stabile”, della serie messaggio in codice: tra 5 minuti telefono al chirurgo vascolare perché anche se mi fido di te è meglio che guardi anche lui le immagini, tanto per non correre rischi.

“Ho un dubbio e voglio rivedere proprio le prime immagini che abbiamo fatto: quelle senza mezzo di contrasto”

“Perché ?”disse lei, aggiustandosi per una frazione di secondo i capelli e strizzando gli occhi castano scuri con quel modo di fare che ormai conoscevo e che faceva quando era concentrata e pronta a scattare come una molla.

“Aspetta un secondo” e mentre dicevo così scorrevo avanti e indietro le immagini con la rotella del mouse impalato davanti alla luce azzurrina del monitor.

“MMM…la parete dell’aorta toracica, all’origine…poco al di sopra della valvola cardiaca, vedi anche tu…?”

“Cosa?” disse lei sforzandosi di più con gli occhi e chinandosi in avanti facendomi vedere per una brevissima frazione di secondo l’incrocio del suo reggiseno dallo scollo della sua tuta azzurra.

“La densità della parete…è diversa: qui è sottile e scura mentre qui, in quest’altra immagine è ispessita e più chiara, cioè più densa !”

“ E che vuol dire?”

“C’è solo una cosa che incrementa la densità della parete dell’aorta nelle immagini senza il mezzo di contrasto!”

“ E cioè…”

Ed entrambi esclamammo all’unisono la fatidica parola che tutti i medici temono: “SANGUE!!!”

Dissi: ”E’ un ematoma intraparietale della parete dell’aorta toracica.”

“Cioè si è lesionata la parete dell’aorta toracica ?” Chiese lei.

Annuii aggiungendo: “ Sì, siamo all’inizio di quella che potrebbe diventare una dissecazione del vaso: un piccolo strappo della sua parete che se non si ferma in tempo la slamina tutta e…buonanotte ai suonatori ” .

“Allora è chirurgico!”

“Be’, non è detto ancora, sicuramente dovrà essere inviato in terapia intensiva trattato con potenti farmaci antipertensivi e strettamente monitorato. Certamente qui da noi non lo puoi tenere: è meglio che lo trasferisci in ambulanza al policlinico dove c’è la cardio-chirurgia. E con l’anestesista a bordo, mi raccomando.”

“Telefono subito”

“Intanto io dico al tecnico di inviare le immagini per via telematica al chirurgo reperibile della cardio-chirurgia. Se ci riesco, lo sai questi collegamenti…”

“Fammi anche il CD, però, mi raccomando”.

“Sentito, L?”

“Già inviato, Maggio’!”

“Bravo, sei sveglio! E lo vedi che l’anno di militare a qualcosa ti è servito!” gli dissi avviandomi verso la mia stanza alla consolle di refertazione e pensando nel frattempo a cosa scrivere.

Scrissi il referto rapidamente, descrivendo i reperti senza tanti giri di parole, d’altra parte la situazione era purtroppo abbastanza chiara. Appena terminato e già pregustando il meritato, seppur ormai breve riposo sul mio sgangherato divanetto, il telefono risquillò : DRRR DRRR.

“E ora che c’è? “ chiesi con un tono ormai da sconfitto.

“Dottore, sono l’infermiera del Triage. L’ha già fatta la risposta di quel ragazzo? “

“Quale ragazzo ?”

“Quello che si è fatto male alla caviglia “

“Quello che lavorava in turno di notte in fabbrica? “ chiedo.

“Nooo “ risponde l’infermiera. “ Lui e la sua ragazza sono quelli che sono usciti stamattina alle tre dalla discoteca e mentre tornavano a casa, siccome il ragazzo si lamentava di un dolorino alla caviglia, lei gli ha detto che valeva la pena  fermarsi qui al nostro PS per fare i raggi: tanto a quest’ora non c’era nessuno. Adesso si sta lamentando perché dice che è un’ora che aspetta la risposta..!”.

In una frazione di secondo passarono per la mia mente tutte le più indicibili parolacce conosciute in italiano e nei vari dialetti. Nella successiva frazione di tempo mentale sognai di avere tra le mani un fucile a pompa stile “terminator”. Ma ero stanco. e con un tono ormai rassegnato risposi:

“Va bene, ora gli scrivo la risposta”.

Le luci della mattina si facevano strada tra gli edifici dell’ospedale e cominciavano a filtrare attraverso le piccole persiane della mia stanza. Guardai sconsolato il divano letto. Decisi di rimetterlo a posto, dopodiché aprii la finestra lasciandola un po’ socchiusa: un vento fresco e teso mi fece rabbrividire, e rapidamente il confortevole calduccio di quel luogo svanì.  Mancava meno di un’ora al cambio… Seduto e assorto davanti alla luce del  monitor, con il mento appoggiato al palmo della mano si fece strada nella mia mente il pensiero del profumo di un buon cappuccino caldo  ed il gusto morbido di una sfoglia alla crema che tra breve mi sarei gustato nel bar di fronte l’ospedale. Un altro turno di notte nella mia radiologia era finito, ma il suono della pulitrice elettrica nei corridoi ed il vivace chiacchericcio  delle infermiere del cambio del turno mi diceva che tutto era pronto  per l’inizio di una nuova giornata in PS.

E Aldo? Era stato trasferito al Policlinico ? L’avevano operato oppure no ? Insomma si era salvato o…?

Domande lecite che un medico con una coscienza si pone inevitabilmente. Spesso non si ha una risposta immediata. Generalmente passa qualche giorno, sempre indaffarati al lavoro ci si dimentica delle persone che abbiamo visitato e delle cose che sono successe; se ne parla un po’ con i colleghi chiedendo magari qualche consiglio o un giudizio sull’operato, e si va…avanti. Poi, improvvisamente, incontrando un medico che aveva lavorato con noi gli si chiede: “ Ma ti ricordi l’altra notte quel paziente?”.  Oppure telefonando per un altro motivo: “Il tizio è ricoverato da te? Come sta?”.

Una volta, soprattutto quand’ero più giovane, ero ansioso di scoprire se le mie diagnosi erano state confermate nel grande policlinico, magari dal chirurgo che aveva operato quel paziente. Tutto ciò mi faceva molto piacere e mi dava fiducia. Ora, devo dire la verità, con il passare del tempo la situazione è un po’ cambiata. Incomincio ad avere quasi pudore nel chiedere ai colleghi come sono poi andate le cose. Un timore che, più che dal sapere di aver sbagliato la diagnosi,  è causato dal sapere che quella persona conosciuta  anche per così breve tempo  non ce l’aveva fatta. Una forma di difesa o un “sano cinismo professionale”? Non lo so. Ci ho pensato spesso ma non ho saputo darmi una risposta.

Resta il fatto che qualche settimana dopo, durante un altro turno, incontrai Maria Grazia e mentre mi parlava come al solito di più situazioni critiche contemporaneamente si lasciò sfuggire: “Ah, lo sai, poi che quel paziente con l’ematoma dell’aorta è tornato l’altra notte?”

“No, non mi dire … una complicanza !”

E lei: “Macché, si è ricoverato per una colica renale! Oh, non ti dico che casino ha fatto. Pensa che alla fine si è calmato solo con una fiala di morfina!”

Tirai un sospiro di sollievo … e mi rimisi a guardare il monitor che imperterrito continuava a mostrarmi una clavicola rotta di un ciclista.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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