IL REFERENDUM
C’è un principio nella Costituzione italiana fondativo dell’intero impianto statale: la sovranità popolare. Questa è esercitata, secondo l’articolo primo della Carta, nelle forme e nei limiti che Essa stessa pone. Tra tali forme, è nota la democrazia di rappresentanza, a mente della quale i cittadini, mediante il voto, investono i propri rappresentanti politici nel farsi portavoce delle loro istanze all’interno delle Istituzioni. Meno conosciuta è, invece, l’altra forma di democrazia, che invoca una partecipazione diretta dei cittadini al dibattito pubblico e all’assunzione delle decisioni di carattere politico e sociale del Paese, cioè il referendum.
Siffatti processi partecipativi trovano la loro base giuridica nel tessuto costituzionale, agli articoli 49, 50, 71, 75 e 118, 138 Cost.: qui, i Padri costituenti hanno espresso una preferenza, oltre che una garanzia, per l’autonoma iniziativa della cittadinanza nella composizione di interessi generali. In tale quadro normativo, quindi, occorre inscrivere il referendum del 2011 cui ci si riferisce nel presente intervento. Fu, infatti, allora che si pervenne agli esiti di un lungo processo di attivazione popolare spontanea, che portò oltre ventisette milioni di italiani a pronunciarsi in favore della gestione pubblica e locale dei servizi pubblici locali tra i quali quello idrico.
Reagendo a una legge che obbligava la messa a gara di tutti i servizi pubblici locali di interesse economico, incluso quello idrico integrato (di fatto, privatizzandolo), dietro la guida di alcuni membri della cd. Commissione Rodotà, istituita qualche anno prima per la riforma del codice civile in materia di beni comuni, la descritta partecipazione civica trovò una significativa attuazione. Costituito un Comitato Referendario, furono elaborati relazione e tre quesiti, presentati dai Giuristi Ferrara, Lucarelli, Mattei, Nivarra e Rodotà, insieme al Forum nazionale movimenti dell’acqua. Il primo proponeva l’abrogazione del cosiddetto Decreto Ronchi nella parte in cui obbligava la dismissione di tutti i servizi pubblici, il secondo invocava l’abolizione di profitti e rendite gestionali rivenienti dal servizio idrico, il terzo, pur nella formulazione abrogativa, suggeriva di vietare l’utilizzo della forma societaria per azioni nella gestione dell’acqua, promuovendone l’obbligatoria trasformazione in azienda speciale di diritto pubblico.
A sostegno dell’iniziativa nelle prime settimane furono raccolte quasi 200.000 firme, che raggiunsero, infine, il milione e seicentomila complessive; quindi, la Corte Costituzionale con sentenza n. 24/11, dichiarò l’ammissibilità del referendum e dispose che la scelta di sottrarre alla mano pubblica la gestione del servizio idrico non era affatto dovuta per conformare il diritto interno a quello europeo, ma che anzi proprio il diritto europeo avrebbe potuto costituirne la legittima base giuridica per la gestione pubblica. La valutazione referendaria avvenne riscontrando una larga adesione alle proposte di rimozione della legge dall’ordinamento e il referendum fu vinto con il favore di oltre il 90% dei partecipanti.
LA GESTIONE DEL SERVIZIO IDRICO DEVE ESSERE PUBBLICA
A dieci anni da quell’intervento dei cittadini, significativo della volontà popolare di riconoscere l’acqua quale bene comune, non assoggettabile alle logiche né alle regole di mercato, in quanto satisfattivo di diritti primari, costituzionalmente riconosciuti e garantiti, nessun politico si è dato carico di intervenire nel declinare in atti normativi il risultato del referendum.
Al di fuori, infatti, della felice esperienza napoletana, ove il servizio idrico è oggi gestito da una azienda speciale di diritto pubblico, ABC – Acqua Bene Comune Napoli, nata dalla trasformazione di ARIN SpA in Azienda Speciale del Comune di Napoli, nessun altro territorio né alcun intervento a livello nazionale è stato approntato. Anzi, il decreto n.138/2011 tentò di reintrodurre la disciplina contenuta nell’articolo abrogato dal referendum, riproducendone i medesimi principi ispiratori e le medesime modalità di applicazione, ricorrendo ad un’interpretazione “estrema” delle regole della concorrenza e del mercato, lesiva delle competenze regionali in tema di servizi pubblici locali e di organizzazione degli enti locali, come sostennero i ricorrenti che ne sollevarono la questione di legittimità davanti alla Corte Costituzionale. Anche allora la Consulta confermò il vincolo referendario, sostenendo che la disposizione impugnata violava il divieto di ripristino della normativa abrogata dalla volontà popolare desumibile dall’art. 75 Cost.
Nelle parole della Corte, una simile abrogazione non consente al legislatore la scelta politica di far rivivere la normativa contenuta nella previgente disciplina, “in ragione della peculiare natura del referendum, quale atto-fonte dell’ordinamento. Un simile vincolo (…) si giustifica, alla luce di una interpretazione unitaria della trama costituzionale ed in una prospettiva di integrazione degli strumenti di democrazia diretta nel sistema di democrazia rappresentativa delineato dal dettato costituzionale, al solo fine di impedire che l’esito della consultazione popolare, che costituisce esercizio di quanto previsto dall’art. 75 Cost., venga posto nel nulla e che ne venga vanificato l’effetto utile”.
Qualche anno dopo, cambiò lo scenario governativo, ma non i contenuti. Fu la volta del cd. Decreto Madia. Esso si professava quale intervento normativo volto a garantire i principi di sussidiarietà e ad agevolare la gestione dei servizi pubblici locali nell’ottica dell’efficientamento. Tuttavia, la prevista riforma integrale della disciplina dei servizi pubblici locali, introduceva la soppressione dei regimi di gestione esclusivamente pubblici, ritenuti non conformi ai principi di concorrenza e non indispensabili per assicurare la qualità e l’efficienza del servizio. La norma trovò l’avvallo del Consiglio di Stato che, con parere, ne rilevò la capacità di assicurare una gestione più efficiente dei servizi pubblici locali di interesse economico generale, con vantaggio degli utenti finali del servizio, degli operatori economici e degli stessi enti locali.
Con riguardo specifico agli esiti referendari, la Corte, considerati ormai i cinque anni decorsi, validò il cambio di passo voluto dalla riforma. Vi riconobbe la restituzione della discrezionalità della scelta sulla gestione agli enti locali, essendo i comuni liberi di affidare la gestione di servizi pubblici locali di rilevanza economica ad imprenditori o società, in qualunque forma costituite, individuati mediante procedure competitive ad evidenza pubblica. In tal modo, però, si dimenticava quel che la volontà popolare aveva già declamato in modo incontrovertibile. Fin da subito, allora, l’iniziativa popolare tornò a reagire. Mediante movimenti e associazioni furono raccolte oltre 230.000 firme, poi rivolte all’attenzione parlamentare, tese a ottenere l’espunzione dal decreto delle norme volte alla privatizzazione dei servizi locali, al divieto di gestione pubblica tramite aziende speciali, o in ogni modo atte a favorire la gestione di tipo privato dei servizi. Intervenne nuovamente la Corte Costituzionale, investita da alcune regioni della questione, dichiarando costituzionalmente illegittime diverse disposizioni della riforma Madia, in quanto lesive delle prerogative regionali e violative del principio della leale collaborazione tra Stato e Regioni nelle materie di reciproca competenza. Ciò costrinse il governo di allora a ritirare il decreto sui servizi pubblici locali di interesse economico generale, approvato appena il giorno precedente dal Consiglio dei Ministri.
Ma la lezione non è stata imparata e oggi pende, tra i tavoli del neo costituito Ministero per la transizione ecologica (MITE), una proposta di decreto rivolto a ridurre i già infimi spazi lasciati ai piccoli enti locali nella gestione del servizio idrico. La normativa vigente prevede la possibilità di salvaguardare le gestioni del servizio idrico in forma autonoma da parte dei piccoli comuni che presentano congiuntamente alcune caratteristiche (approvvigionamento idrico da fonti qualitativamente pregiate, sorgenti ricadenti in parchi naturali o aree naturali protette ovvero in siti individuati come beni paesaggistici), i quali devono essere in grado di garantire un utilizzo efficiente della risorsa e di tutelare il corpo idrico. Nella relazione di accompagnamento alla proposta d’intervento normativo, si dichiara che tale riserva ai comuni della gestione del servizio idrico, sarebbe in grado di “deprimere o annullare gli sforzi e la volontà del legislatore indirizzati (…) all’integrazione verticale del servizio e all’industrializzazione dello stesso”, richiamandosi al “rispetto della normativa europea in materia di servizi pubblici locali” e, pertanto, se ne propone l’abrogazione.
Tuttavia, la Corte Costituzionale si è già espressa più volte ritenendo la gestione comunale del servizio idrico compatibile con la normativa europea che regola i servizi pubblici di interesse generale e anche la stessa Costituzione imporrebbe di riconoscere una preferenza alla gestione locale di tali servizi. Anche la richiamata proposta, quindi, manifesta la tendenza inarrestabile della politica, di questo come dei precedenti governi, al disconoscimento degli esiti referendari, dovendovisi leggere un colpo di mano che mira alla privatizzazione della gestione.
NON CHIEDERCI LA PAROLA
Ecco perché preghiamo di non chiederci la parola, recuperando i versi del famoso Poeta: di fronte alle inerzie della politica nell’attuazione della volontà popolare, davanti ai persistenti tentativi di rosicchiamento della democrazia e del Diritto Pubblico, inteso quale strumento istituzionale volto alla cura dei diritti civili, politici e sociali della cittadinanza, “codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Non vogliamo la devoluzione del servizio idrico in mani private; non vogliamo l’assoggettamento della cura di un bene primario, come l’acqua, alle regole liberiste di mercato; non vogliamo una rappresentanza sorda alle richieste dei cittadini e vogliamo che sia salvaguardata la possibilità di scelta degli enti locali, quale espressione di presidio di prossimità dei diritti della cittadinanza, circa la gestione in proprio del servizio idrico.
Dunque è tempo di dare attuazione alle istanze che vengono dai territori e dal basso, anziché progredire nella conduzione di una politica del tutto slegata dai bisogni di chi è chiamata a rappresentare.
Quando si dice STATO GARANTISTA…è triste doversi guardare sempre le spalle. È triste sapere che cercano in tutti i modi di aggirare una disposizione popolare di fatto divenuta LEGGE con magheggi e rinterzi. Non ci dovremmo limitare al bene ACQUA. Perché altri beni primari sono stati venduti alla privatizzazione a scapito del cittadino
Articoli come questi meritano una maggiore divulgazione, per portare all’attenzione di questo grave problema un numero maggiore di cittadini, ancora all’oscuro di tutto questo.