di Piero Paolicchi
L’espressione “L’Italia è fatta, ora bisogna fare gli Italiani”, attribuita a Massimo D’Azeglio, evidenziava il compito che i protagonisti del Risorgimento dovevano affrontare per passare dall’unificazione politica manu militari di un territorio alla costruzione di una unità nazionale fondata sul senso di appartenenza a una comunità, “una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor”, come aveva scritto qualche decennio prima Manzoni: di quella, insomma, che poteva essere una “identità italiana”.
Il termine stesso identità sottende tuttavia un’ambivalenza di base dovuta all’apparente ovvietà di una distinzione, evidenziata a livello individuale dalla psicologia evolutiva e clinica, tra il senso di unicità, originalità e continuità nel tempo di ogni singolo essere umano, e il senso di appartenenza, di medesimezza partecipata con tutti coloro coi quali l’individuo si relaziona condividendone modi di vita, idee, valori. Dagli stessi studi si ricava pure che l’identità in entrambi i sensi non è il mero risultato di processi cognitivi regolati da qualche grammatica o sintassi meramente logica e processi di categorizzazione astratti, ma anche di bisogni profondamente radicati nella sfera emotivo-affettiva degli esseri umani.
Inoltre, individuazione e identificazione non corrispondono a due entità o processi separati per la loro natura e tanto meno per la loro origine. Entrambe infatti nascono e si sviluppano nel processo di socializzazione, che è sempre anche un processo di individuazione. Si tratta quindi di due poli di un continuum, in tensione dialettica tra loro, con equilibri variabili che entro certi limiti esprimono altrettanto varie modalità di rapporto tra un soggetto o un gruppo e il mondo esterno, mentre l’eccessivo spostamento verso l’uno o l’altro segnala una condizione di squilibrio, un disturbo della relazione io-mondo, insomma una patologia, a livello sia individuale che sociale.
Il bisogno di autovalutazione positiva proprio di ogni essere umano spinge alla ricerca di un riconoscimento del proprio valore entro i contesti di vita in cui si muove, dalla famiglia al gruppo dei pari, agli ambienti di lavoro, al sistema sociale nelle sue articolazioni istituzionali. L’esito positivo è una risposta alla domanda “chi sono io” tale da combinare il bisogno di autostima e capacità progettuale con i valori della propria cultura, e con le attese della propria società non accettate passivamente o rifiutate totalmente, ma valutate in modo critico e messe in discussione secondo propri punti di vista personali. Si tratta di non finire, da un lato, nel solipsismo autoreferenziale che impedisce qualsiasi scambio con gli altri, dall’altro nella condizione dell’uomo massa che, incapace di senso critico, segue le indicazioni di qualche fonte di verità terrena o ultraterrena.
Lo stesso movente spinge un gruppo alla ricerca di una autovalutazione positiva nei rapporti con gli altri gruppi con cui entra in contatto. Deve difendere una propria identità fondata sulla condivisione tra i membri di memorie, esperienze, progetti, di una visione comune della realtà soprattutto per quegli aspetti che non hanno un riscontro nel mondo fisico ma sono “istituiti”: i valori che devono regolare le relazioni all’interno del gruppo e con gli altri gruppi, i criteri per stabilire ciò che è giusto o sbagliato, modificabile o immodificabile. Se questi elementi che fanno da collante si riducono oltre un certo limite, il gruppo cessa di esistere come tale, si disgrega. Ma contemporaneamente, entro ogni gruppo ci devono essere tensioni verso il nuovo, altrettanto necessarie per la sua sopravvivenza, perché l’eccesso di staticità e chiusura riduce la capacità del gruppo di gestire i mutamenti al suo interno e far fronte a quelli del mondo esterno.
Il dilemma tra apertura e chiusura, tra staticità-continuità e dinamicità-mutamento, tra difesa della propria identità e accettazione dell’altro non come una minaccia ma come un incontro che arricchisce attraverso il confronto e la cooperazione, è dunque il carattere essenziale della condizione umana a cui né individui né gruppi possono sfuggire. Ma il modo in cui lo affrontano varia per entrambi in funzione di fattori interni ed esterni. La propria identità può essere messa in gioco nell’incontro con l’altro se è solida, ma anche se il contatto non mette a rischio beni sia materiali come la sicurezza sul piano fisico o economico, sia immateriali come un qualche elemento centrale nel sistema di significati a cui il singolo o il gruppo attribuiscono un particolare valore. Lo stesso accade, a individui e gruppi, quando il contesto di vita muta rapidamente, mettendo in crisi gli equilibri su cui si è costituita l’identità.
Se tali condizioni si producono, si verificano processi evidenti nei rapporti tra gruppi che entrano in competizione o in conflitto. Tra i più comuni ci sono la minimizzazione delle differenze percepite tra i membri del proprio gruppo, il “noi”, e quelle tra gli altri, il “loro”; la massimizzazione delle differenze tra il “noi”e il “loro”; la tendenza al confronto con gruppi da cui risulti confermata la propria superiorità; la ricerca di un capro espiatorio all’interno o di un nemico all’esterno a cui attribuire tutto ciò che di negativo accade nel presente; il ritorno su memorie del proprio passato a cui rifarsi per consolidare la propria identità.
I principi universali di libertà, uguaglianza e fraternità dei rivoluzionari francesi si erano tradotti nel richiamo a un’identità condivisa giocata sulla contrapposizione al nemico comune della Marsigliese, il tiranno con i suoi schiavi e mercenari. Così il richiamo all’unità italiana nel Risorgimento era in funzione della lotta contro l’occupante Aquila asburgica, per cui si doveva essere non solo fratelli, ma “pronti alla morte”. Ma l’italianità che il D’Azeglio e Manzoni auspicavano non poteva rimanere fondata solo sulla difesa contro l’odiato Austriaco nel Risorgimento, o la perfida Albione del regime fascista, o l’attuale invasore musulmano, come altari su cui immolare le differenze tra piemontesi, lombardi, toscani, napoletani o siciliani, con le loro tradizioni, i loro idiomi, i loro usi e costumi, le loro identità regionali, e quelle ancor più numerose ruotanti intorno a municipi e campanili.
Le dinamiche identitarie “normali” comunque sono caratterizzate dalla possibilità di molteplici appartenenze, giocate come compatibili o alternative in diversi momenti e situazioni, senza che nessuna debba essere annullata o tenda ad annullare tutte le altre. Così come rivestiamo una molteplicità di ruoli, ci si può identificare come membri di una famiglia, di un’associazione, di un partito, di una comunità locale o nazionale, e relazionarsi come tali con chi vive appartenenze diverse. Se c’è un risultato di conoscenza che le scienze umane non aggregate al carro di qualche potentato o ideologia di turno hanno ottenuto, è che la vita a tutti i livelli è tensione dinamica tra distinzione e relazione: tra organismo e ambiente, tra io e mondo, tra individuo e gruppo. E che nella vita di individui e gruppi si propongono inevitabilmente molteplici dilemmi: tra libertà e ordine, tradizione e mutamento, universalismo e relativismo, localismo e globalismo.
Sono dilemmi che lasciano due sole scelte alternative: scontrarsi fino in fondo per annullare l’altro percepito come minaccia alla propria identità, o lavorare faticosamente per scoprire e rafforzare qualche filo sottile su cui avviare il percorso verso una maggiore comprensione se non una comune appartenenza. Ideale sarebbe quella che Einstein avrebbe espressa (secondo un aneddoto probabilmente inventato ma coincidente con le sue idee) quando, richiesto al suo ingresso negli USA di dichiarare la sua razza, rispose: umana. Purtroppo non mancano invece regimi in cui un leader, difensore della fede o comandante in capo, sostiene il suo potere scaricando all’esterno le tensioni, le paure, la rabbia su cui si regge l’identità collettiva di tutta una comunità. Potenti che intendono aggredire i nodi gordiani delle relazioni sociali e politiche con un colpo netto come Alessandro Magno con la sua spada, ma più pericolosi di lui perché impugnano non spade ma armi atomiche.
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