Alfonso M. Iacono, La sinistra nel Paese dei Balocchi

Ne Il capitale, di cui ricorrono i 150 anni della pubblicazione del primo libro, l’unico terminato e pubblicato da Marx, si legge: “Nella cooperazione pianificata con altri l’operaio si spoglia dei suoi limiti individuali e sviluppa la facoltà della specie”. Eppure nel modo capitalistico di produzione questa stessa facoltà cooperativa è diventato il luogo sistematico dello sfruttamento. Le facoltà individuali, in tragica contraddizione con l’individualismo, tendono a svuotarsi e ad essere trasferite ai mezzi di lavoro. Nel macchinismo, la figura più complessa di cooperazione capitalistica, questo trasferimento si realizza completamente.

Marx definisce la cooperazione in termini di forze. Il riferimento è alla forma cooperativa in quanto forza collettiva, superiore alla somma delle forze individuali, dell’organizzazione e della disciplina militare.

Quella che Marx ha definito la facoltà della specie umana, la cooperazione, dove si sviluppa il carattere sociale degli individui, è nello stesso tempo la forma fondamentale del modo di produzione capitalistico entro cui si realizza lo svuotamento delle facoltà individuali e lo sfruttamento della forza-lavoro. Noi viviamo in questa contraddizione tra le capacità umane sociali e cooperative e il loro dominio e sfruttamento.

Proprio il potere che contiene in sé la cooperazione, quello per cui gli uomini sviluppano la loro umanità, è anche quello che può trasformarsi in una maledizione. L’ambivalenza della cooperazione può essere facilmente constatata in tre dei momenti dell’attività umana: la musica, la guerra, il lavoro. Un’orchestra, un esercito, una maestranza esprimono tre modi della cooperazione umana. Nell’orchestra lo stare insieme in modo organizzato, cioè attraverso una disposizione e una divisione delle competenze, è finalizzato a dare unità musicale a una composizione artistica, nell’esercito un modo organizzativo tutto sommato analogo è finalizzato alla forza e alla violenza più o meno legittima, nella fabbrica è finalizzato alla produzione delle merci. Si tratta di forme di cooperazione pianificata, in quanto alla capacità individuale degli uomini di stare insieme si aggiunge un’organizzazione pianificata di questo stare insieme. Chi decide dell’organizzazione e della pianificazione detiene il potere.

Come aveva già osservato Rifkin, si sta creando una divaricazione sempre più grande tra “un’élite cosmopolita di «analisti di simboli» che controllano le tecnologie e le forze di produzione; e un crescente numero di lavoratori permanentemente in eccesso, con poche speranze e ancor meno prospettive di trovare un’occupazione significativa nella nuova economia globale ad alta tecnologia”. Il nostro sistema sociale sembra esigere un prezzo, quello di una disarmata e dunque pericolosa permeabilità alle esigenze di un mercato dove, mentre le cose si sostituiscono agli uomini, gli uomini diventano cose.

Quando negli anni ’80 si cominciò a parlare di globalizzazione, si diffuse e divenne dominante una determinata visione del mondo. In essa c’era posto per l’abbassamento dei salari, per il ritorno verso forme occulte di schiavitù, per la ridislocazione in vari angoli del pianeta della produzione, per guerre fatte in nome dell’umanità, per l’idolatria e l’onnipotenza dei cosiddetti manager, per le speculazioni bancarie, per un indebolimento dei valori morali in nome dell’efficienza e del realismo, per la selvaggia occupazione privata di tutto ciò che era pubblico, per la fine della responsabilità sociale. Ci fu posto anche per il precariato che da spiacevole fase transitoria dell’esistenza divenne in silenzio condizione permanente. Una destra aggressiva impose di fatto l’idea di precarietà come condizione permanente del lavoro e una sinistra ormai esangue che si vergognava di se stessa e andava in cerca di servili riconoscimenti imprenditoriali e manageriali di fatto la accettò chiamandola flessibilità. Che cos’è la flessibilità? In teoria un’ottima cosa: poter cambiare lavoro senza sentirsi prigioniero della ripetitività quotidiana dei gesti e dei comportamenti; essere svincolati dal lavoro fisso che condiziona tutta una vita; ottenere piena libertà nelle scelte. Un mondo meraviglioso! Del resto, il padre dell’economia politica Adam Smith aveva rilevato nel XVIII secolo che la ripetitività del lavoro di fabbrica uccideva l’intelligenza dei lavoratori. In pratica il racconto della flessibilità ricorda invece la storia di Pinocchio, di Lucignolo e del Paese dei Balocchi. Il famoso burattino credeva di andare a divertirsi con l’amico e si trasformò in asinello. Il lato asinino della flessibilità è la precarietà: dover cambiare lavoro in base alle fluttuazioni del mercato; essere condizionati per tutta la vita dalla mancanza di impiego fisso; non avere alcuna libertà nelle scelte. La precarietà non soltanto dà insicurezza rispetto al lavoro e al futuro, ma alla lunga tende a piegare il senso di orgoglio e di dignità delle persone, poiché esse sono sempre ricattabili fino al punto che la loro volontà si disperde e la loro autonomia si dissolve. Il vero problema è il fatto che la precarietà da condizione transitoria dell’esistenza è diventata, come già detto, condizione permanente in un mondo dove ogni speranza per il futuro, ma anche ogni rabbia per un presente che sta offendendo la dignità e l’orgoglio, non riescono a trovare né spazi né valori collettivi. Ogni senso critico resta privato e si dissolve nell’autoinganno indotto dall’oscillare mediatico tra la falsa euforia prodotta dalla pubblicità di un mondo che non c’è, e lo spettacolo di corruzione, di immoralità e di egoismo a cui assistiamo tutti i giorni, ma che vediamo alla tv come dal buco della serratura, dall’altra parte e in silenzio. Il crescere delle diseguaglianze e la retorica ben riuscita sulla precarietà rappresentano l’altra faccia della cooperazione, quella dove una facoltà caratteristica della specie umana, tale che distingue gli uomini dagli scimpanzé, loro parenti prossimi nella scala evolutiva, diventa lo strumento più efficace dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

Questo processo è dilagato ovunque. Esso ha come conseguenza la perdita di autonomia e di orgoglio di chi è costretto, suo malgrado, a strisciare per ottenere un favore e la crescita dell’odio nei confronti del potere e della politica. La sudditanza è una strana miscela antipolitica di sottomissione, condivisione e odio. Questa situazione è aggravata dalla precarietà. Diciamo le cose come stanno, senza ipocrisie. La precarietà è una condizione schiavile che fu vergognosamente confusa con la flessibilità, un tipico privilegio di chi il lavoro ce l’ha. Può essere alleggerita soltanto se si è in grado di legarla, come prospettiva di lavoro, a un futuro concreto di stabilità, di cui nessuno si preoccupa oggi veramente. Quanta arroganza nell’idea della monotonia del lavoro fisso! La tipica arroganza di chi il lavoro fisso ce l’ha. Il cambiamento è attraente solo se è dettato da una libera scelta. Se si è costretti a cambiare per necessità, è a dir poco sconfortante. Essere flessibili implica una scelta, essere precari comporta una costrizione. La precarietà blocca inoltre l’emancipazione dalla famiglia d’origine, che tuttavia resta l’unica protezione possibile, affettiva e economica, ma che può diventare una prigione dove il tempo sembra fermarsi. Il tempo invece passa inesorabilmente. Essere giovani a tarda età era prima un illusorio privilegio dei ricchi e dei benestanti che tuttavia si sta democraticamente espandendo a livello di massa (quella occidentale, intendo). Essere precari con i capelli grigi è una condanna reale.

Il Primo Libro de Il capitale fu pubblicato 150 anni fa, eppure, per molti aspetti, sembra uscito oggi. Per questo nel mondo sono tornati di corsa a studiarlo.

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