Alfio Pellegrini, L’Europa, dal di dentro e dal di fuori

L’eccentrico Philippe Daverio sere fa ebbe a dire con la sua aria sorniona di provocatore che, se ogni volta che vi facciamo ricorso riconoscessimo agli odierni greci anche solo minuscole royalties per ogni parola e concetto ellenici che ancor oggi utilizziamo, sarebbero il popolo più ricco e, forse, più felice della terra, poiché vivrebbero di rendita per non si sa quante migliaia d’anni, invece di essere pesantemente penalizzati da una Unione Europea che ha preferito metterli alla fame. Si è spesso parlato, un po’ favoleggiando, di miracolo greco, come se il mondo ellenico fosse sorto senza contrarre debiti con le civiltà vicine, alcune delle quali molto solide ben prima che i greci rifulgessero del loro splendore. Gli antichi greci, in verità, benché orgogliosi della propria autonomia, ci avevano pur messo sull’avviso, riconoscendo, talora solo tra le righe, quanto dovevano anche agli altri popoli. Eppure non è difficile ammettere che nella provocazione di Daverio c’è qualcosa di più che una piccola verità: il pensiero europeo è fortemente intriso di basi elleniche, qualunque distanza vogliamo considerare interposta tra la nostra realtà in atto e la loro.

Merita ricordare che diversi intellettuali tedeschi, visitando la Grecia, rimasero delusi di quella che parve loro una profonda indolenza del popolo che vi incontrarono, e parlarono di influssi levantini penetrati nel robusto ceppo originario, corrompendolo. Né è mancato tra loro chi abbia postulato che i veri greci attuali fossero i tedeschi, per ricchezza e complessità di lingua e per profondità o altezza di pensiero. Ora, nessuno negherebbe che il pensiero di lingua tedesca, specie tra Sette e Novecento, abbia conosciuto una superba stagione di rigoglio (quasi una rifondazione), ma sarebbe assai improprio riconoscere ad esso, e ad esso soltanto, di aver raccolto e rinfrescato questa straordinaria eredità; tanto più che la radura boschiva, con i suoi giochi di luce e oscurità, non è la medesima cosa del mare aperto e soleggiato, né vi si respira la stessa aria.

Ma il motivo principale per cui ho preso le mosse da Daverio è un altro. Il mondo cambia, cambia ogni giorno, ce lo stiamo ripetendo da tempo. Si può scegliere di accettare o non accettare il come, non di non esserne partecipi. Siamo nel mondo e il mondo è in noi. In che modo? Essenzialmente attraverso le parole. La lingua è il fondamento del mondo in noi. Da qui la non effimera rilevanza del greco (e, per la verità, anche del latino). Chiamare una cosa è definirla. Nel nominarla ce ne appropriamo, ne allontaniamo l’opacità. Ogni lingua che parliamo è il filtro di una interpretazione stratificata che ci è trasmessa alla nascita. La sorveglianza critica che possiamo sviluppare ci mette in condizione di un uso più consapevole di quanto ci è trasmesso, ma nessuno è in grado di sottoporre ad un vaglio integrale il linguaggio di cui si serve. Ogni concetto che adoperiamo è un pezzo del mondo in noi. Un concetto che ci manchi è una indeterminatezza, un vuoto. Si potrà dire che non c’è concetto senza un vuoto che lo avvolga, ma ogni concetto è un pieno. Ciò che non è detto non è. Il grado zero però non esiste; questo vuoto primordiale, che potremmo voler tentare di ricostituire in noi, è impossibile. Bisognerebbe poter ripartire, neanche dal primo vagito, ma da subito prima della prima parola pronunciata da essere umano.

A me pare ne segua, intanto, che non arriveremo mai a contenere in noi il mondo, tutto intero e quale è. Al tempo stesso, che non possiamo sfuggirgli, se non con la morte. In secondo luogo, che nel definirci non possiamo non tener presente una componente interna, stratificata nel linguaggio, e una componente esterna che nasce dall’incontro-scontro con l’altro. Se nel rapporto con l’altro definisco me stesso, anche l’altro si definisce nel rapporto con me. Quando l’altro mi identifica come europeo, io sono europeo e l’Europa c’è. Non è senza importanza, ovviamente, che io lo rappresenti con una serie di stereotipi e lo stesso faccia lui nei miei confronti. Il primo principale passo è però l’incontro, il resto viene dopo. Di questa Europa che l’altro vede, e degli europei che vede in noi, dovremmo cercare di renderci conto e prendere atto.

Così mi riesce difficile immaginare che l’Europa sia una mera e imprecisata espressione geografica. Dell’Europa abbiamo tanto un riscontro interno che un riscontro esterno. Metto in conto la possibilità di star prendendo una enorme cantonata, ovviamente; ma a me non sembra una finzione; a me sembra un dato. Dunque sono risolti, in un colpo solo, il problema dell’esistenza dell’Europa e quello della sua identità? Probabilmente no. Ma il passo potrebbe essere di quelli non peregrini. Ricordate quanto si discusse di identità dell’Europa, pensando che la costituzione a cui si lavorava dovesse indicarne chiaramente le radici da tutti riconosciute, e tra queste anche il cristianesimo? Ora, secondo me l’identità non si mette in costituzione, neppure quella che si consideri stratificata e comune ai pur diversi popoli che si sono incontrati e scontrati in un continente; specie in un caso come il nostro, che affonda le proprie radici in una storia di contrasti e visioni diversificate, che la rendono duttile. Allora l’identità non è statica: è mobile, è movimentata, e attinge a tutte le culture del passato, quelle che hanno avuto (per così dire) una continuità, come quelle che si sono apparentemente interrotte, non senza tracciare percorsi carsici che a tratti riaffiorano. La nostra identità è figlia di conflitti. Penso che questo valga per tutto quanto il mondo, ma in Europa mi sembra, a dir poco, strano non ci se ne renda conto con immediatezza. L’intera nostra storia è intessuta di guerre; e però a un tempo è anche intessuta di pensieri irenici, rimasti sconfitti dai fatti e sotterraneamente presenti. Poiché comunque non solo di guerre siamo vissuti (e morti), i contatti tra i diversi popoli che hanno abitato e abitano il continente sono consistiti anche in scambi culturali intensissimi. È tutto questo che fa, in Europa, identità interna, e che la rende reale. Ma una costituzione deve guardare oltre, dimostrare consapevolezza di una identità che non è fatta solo di apporti diversi e contrastanti, ma che costantemente si ridefinisce. Come è stato detto molto bene, la verità umana, verità in divenire, non può essere che una verità del divenire.

Questo vale per la nostra realtà interna: ciò che l’Europa è rispetto a se stessa. E rispetto agli altri popoli del mondo? Sotto quale veste gli altri popoli ci individuano come europei? Gli aspetti, anche in questo caso, non saranno né univoci né statici. Di sicuro tuttavia incontriamo qui un tratto non meno imprescindibile della nostra storia: siamo coloro che hanno colonizzato il mondo. Non erano gli stessi, e non parlavano la stessa lingua, gli inglesi e i francesi, gli olandesi e i belgi, gli spagnoli, i portoghesi, i russi, e poi i tedeschi e gli italiani: ma tutti adottavano politiche di espansione e di conquista, tutti indistintamente consideravano i colonizzati come esseri inferiori da asservire, tutti avevano armi micidiali simili, tutti prelevavano risorse e introducevano i loro prodotti, adottando le stesse tecniche. Questa realtà, che è inscritta nella nostra storia, come diceva padre Balducci, noi l’abbiamo come rimossa. E ci riesce difficile capire perché siamo anche odiati, invece di essere solamente (e tanto) amati in virtù delle nostre meraviglie. Sartre provò a gridarcelo in faccia perché aprissimo gli occhi, quando scrisse quel mirabile saggio introduttivo a I dannati della terra di Fanon, che la gran parte dei francesi non gli ha mai perdonato. Oggi ci troviamo a ricomporre uno specchio in frantumi, in cui sono riflesse le nostre molte componenti, interne ed esterne. Perché la ricomposizione riesca, bisognerà essere particolarmente bravi. Sinceramente, mai disperare, ma mi pare dura.

 

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