Vittorio Biagini, Perché poeti in tempo di povertà?

…e che fare intanto e che dire / non so e perché poeti in tempo di povertà? Questi celebri versi, oggetto di tanti commenti, spesso impropri, sono al centro dell’elegia Pane e vino (1801), nella quale Friedrich Hölderlin contrappone l’età della fioritura greca, come compiuta realizzazione dell’umano, legata alla pienezza di senso dell’esistere – la “presenza dei celesti” – alle età successive (a partire dalla propria; al di fuori dunque, anche lui, di ogni illusione sulle magnifiche sorti e progressive) nelle quali invece gli dei sono “fuggiti”, ossia si sono smarrite le ragioni profonde dell’esperienza umana, si è sprofondati nella “povertà”. Povertà nell’attribuzione di senso e nel linguaggio come povertà nell’operare. “Che fare” allora in questa “notte”? Testimoniare, con la memoria della “felicità” passata, la possibilità del suo “ritorno”. Ecco il compito della poesia: salvare, attraverso la negatività presente, nella fedeltà alla memoria, la figura del compimento umano avvenire.

Questi versi, a distanza di due secoli, mantengono la loro attualità. E possono servire a caratterizzare la vicenda della poesia moderna, da quella sua decisiva soglia storica fino a noi. Perciò abbiamo intitolato Perché poeti in tempo di povertà? il programma di avvicinamento alla lettura della poesia moderna, rivolto anzitutto ai giovani ma aperto a tutti, che teniamo ormai da anni presso la Biblioteca delle Oblate di Firenze.

Come lucidamente Baudelaire registrava, la poesia moderna, per la difficoltà che comunque la segna, vede un restringimento del suo pubblico. La lettura di essa richiede una complessa mediazione, che accompagni il confronto ravvicinato col testo con la ricostruzione dei vari nessi intertestuali e contestuali. La comprensione dello scritto non può prescindere dalla sua adeguata collocazione storica e culturale (non solo letteraria, ma anche in rapporto al pensiero e ai vari saperi, o, per altro verso, alla cultura diffusa).

Tanto meno la poesia è letta in un paese come il nostro, dove il problema di una vera formazione culturale diffusa è da sempre più acuto. Alla scarsa lettura, come è stato osservato, corrisponde però un’abnorme produzione poetica. C’è un evidente bisogno di espressione, che non trovando (visto anche il tracollo delle istituzioni preposte) modalità formative e filtri critici adeguati, che portino a distinguere tra domanda di poesia e esigenza di scrittura, si esprime per lo più attraverso una produzione selvaggia, affidata a una presunta spontaneità sentimentale o, tra i più scolasticamente letterati, al tecnicismo o comunque alla maniera.

Tutto questo ci pare giustifichi un impegno formativo che difenda una nozione forte, esigente, del fatto poetico, capace di comprenderne appieno, fuori da ogni rigidità, la complessa ricchezza.

La poesia, come ogni espressione culturale, è produzione di senso; figura del rapporto io-mondo; rappresentazione di una esperienza del reale nella sua complessità, con il coinvolgimento di tutte le facoltà soggettive (percezione, emozione, intelletto, memoria, immaginazione, desiderio). Al di fuori di ogni ingenuo rispecchiamento, assumendo la differenza tra linguaggio e realtà e la dimensione comunque traduttiva della rappresentazione. La scrittura si fa carico della complessità del mezzo, ne valorizza al massimo la peculiarità, ma non per affermarne l’autonomia (il carattere puramente estetico) bensì per far risuonare meglio nella differenza l’identità: il senso di quella vita che sta fuori.

La poesia nasce nella più piena adesione al presente ma ben al di là della soggezione alla sua datità nuda. Essa implica la riassunzione attualizzante del passato, il confronto serrato con i codici tramandati e – anche da quella riassunzione, che sappia cogliere il futuro del passato, la promessa serbata da esso – la protensione nel domani. Il senso come presente teso tra passato e futuro (Fortini).

La poesia assume in sé, nel modo più vario, il carattere conflittuale dell’esperienza che rappresenta. Un conflitto complesso, esplicito o nascosto, che interessa, intrecciandole, varie dimensioni. Anzitutto la dimensione antropologica: i limiti esistenziali contro l’apertura senza termine dell’immaginazione produttiva (l’infinità leopardiana del desiderio) e dunque della cultura; ma anche i conflitti insiti nella produzione culturale (il trauma originario della differenza tra segno e cosa); o il peso del costrutto culturale (e della sua necessaria riproduzione attualizzante). Poi la dimensione storica: il passato e il presente come perpetuarsi del dominio sulle potenzialità produttive umane che ne impedisce il libero dispiegamento. E infine la dimensione personale: la soggettività nel suo contesto particolare, interpersonale ma anche fisico, con i contrasti esterni ed interni che ciò comporta.

Ma occorre poi ben rilevare la novità della fase storica di modernità piena, che inizia appunto tra Sette e Ottocento, al culmine di una lungo processo: la lenta e complessa dissoluzione del mondo feudale e la formazione degli stati moderni, l’umanesimo e la riforma, le scoperte geografiche e la nuova scienza e l’Illuminismo, fino all’avvio della rivoluzione industriale e alle rivoluzioni borghesi. Si afferma a quel punto, estesamente, una soggettività nuova, mobilitata, attivata, ma sempre presa in un doppio conflitto: con i vincoli tradizionali comunque persistenti e con le nuove forme di disciplinamento, legate ai mutati assetti di dominio.

Da un lato c’è l’affermazione del potere della conoscenza, della ricchezza del sentire, della libera volontà. Ma dall’altro viene vissuta la crisi del senso globale, della rispondenza piena tra soggetto e realtà che era assicurata dalle mitologie premoderne (nelle visioni del mondo diffuse come nella teologia e nella metafisica). Il soggetto moderno si confronta con la dissociazione e con i limiti delle sue facoltà.

All’estensione quantitativa della conoscenza si contrappone la sua povertà qualitativa: essa ci offre una realtà rispetto alla quale il soggetto ha perso centralità e rispondenza (l’arido vero di un universo muto sostituisce il cosmo antropocentrico).

All’esaltazione della volontà autonoma si contrappongono la violenza sociale e il disordine politico: l’incapacità (ancora tutta nostra) di dare vera forma, istituzione politica adeguata, alla libertà.

Alla ricchezza della percezione e del sentire (con l’intensificazione legata ai moderni processi di delocalizzazione e di meccanizzazione, ma anche con l’osservazione di sé propria del soggetto svincolato, che si confronta coi poteri dell’immaginazione, con la profondità oscura del desiderio e della memoria) si contrappone la difficoltà di darle forma: il nuovo soggetto è minacciato dal caos esterno ed interiore. Da ciò la centralità, per la modernità, della dimensione estetica e della questione educativa.

E dunque la centralità della poesia. Col suo carattere linguistico primario (ritmo, colore sonoro, esaltazione degli aspetti figurali in singolare intreccio con la funzione denotativa), con la sua mobilitazione dell’insieme delle facoltà, può offrirci una cifra singolarmente ricca dell’esperienza di contro alla miseria dei linguaggi correnti. Tenendo insieme positività e negatività radicali. La poesia moderna ha in sé, accanto alla traccia irrinunciabile di felicità, un marchio forte del negativo: come figura della negatività data e come negazione di quella. Assunzione del negativo che tocca in vario modo anche la forma e si risolve spesso in oscurità. La verità, la bellezza – non diamo per inutilizzabili queste parole, qui convergenti – della poesia corrispondono comunque alla sua valenza critica nei confronti del cattivo esistente. Sia detto contro le tendenze adattive purtroppo prevalenti, che dinanzi all’inadeguatezza dei cattivi approcci ideologici prima dominanti, teorizzano la rinuncia a ogni teoria critica, riducendo le pratiche interpretative a qualcosa tra tecnicismo e impressionismo.

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