Maria Pellegrini
La lezione umana e morale di Antonio Gramsci
«La mia vita trascorre sempre ugualmente monotona, anche studiare è molto più difficile di quanto non sembrerebbe. Ho ricevuto qualche libro e in verità leggo molto, più di un volume al giorno oltre i giornali, ma non è a questo che mi riferisco, intendo altro: sono assillato da questa idea. Che si dovrebbe fare qualcosa FUR EWIG, per l’eternità, fare qualcosa in maniera tale che io sia ricordato, cioè che io venga ricordato per essermi occupato di qualcosa di veramente valido che non si perda facilmente e che non sia oggetto di semplice ricordo o di memoria». Così Antonio Gramsci scrive alla cognata il 10 marzo 1927 dal carcere dove è rinchiuso da pochi mesi.
La mostra, allestita alla Camera dei Deputati in occasione degli ottant’anni dalla sua morte, testimonia che non si è persa la memoria del suo pensiero, dei suoi vasti interessi, della passione politica e culturale, delle riflessioni sulle cause che avevano portato alla vittoria del fascismo e sui maggiori problemi del suo tempo, e delle migliaia di pagine scritte nonostante la lunga detenzione che ne logorò la fibra. Il desiderio di essere ricordato per la validità dei suoi studi, si è realizzato: Gramsci è divenuto uno tra i 250 autori più citati nella letteratura internazionale. In tutto il mondo sull’opera del grande intellettuale comunista sono stati scritti libri, saggi, articoli.
Non è questa la sede per soffermarci sul suo pensiero politico, sulle divergenze ideologiche con il Partito Comunista, sulla critica dello stalinismo e del marxismo sovietico, di cui a lungo si è dibattuto tra gli storici; è dell’uomo Gramsci che vogliamo parlare, del suo impegno civile, del suo senso dello Stato e testimoniare l’intensa emozione che si prova alla vista di quei Quaderni, ricchi di profonde considerazioni riguardanti la politica, la filosofia, la letteratura, la storia, redatti con quella serietà, che è requisito essenziale per uno studioso, e con quella passione di uomo di parte che odia «chi non parteggia», come leggiamo in un lungo articolo, Indifferenti, pubblicato l’11 febbraio 1917 in La città futura.
Gramsci non tollera che si accetti passivamente ciò che accade e lo si attribuisca alla fatalità degli eventi. La realtà in cui si vive non è l’unico dei mondi possibili, si può contrastare, cambiare, perciò contro questa passività degli uomini scrive: «Odio gli indifferenti… l’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita… è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia… Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti non è tanto dovuto all’iniziativa dei pochi che operano, quanto all’indifferenza, all’assenteismo dei molti».
Troppo lungo sarebbe ripercorrere la breve e tormentata vita di un così geniale pensatore, figura di grande intellettuale e leader politico vissuto nei tempi terribili della dittatura fascista, ma è opportuno ricordare soltanto alcune date. Nato ad Ales (Cagliari) nel 1881, si iscrive al Psi nel 1913; nel 1919 dà vita, insieme ad altri, alla rivista L’Ordine nuovo, Rassegna settimanale di cultura socialista; nel gennaio 1921 è uno dei fondatori del Partito Comunista Italiano. È eletto al Parlamento nell’aprile 1924, ma nel novembre del 1926, con la messa fuori legge dei partiti d’opposizione da parte del regime fascista, è arrestato con altri deputati comunisti e rinchiuso nel carcere di Regina Coeli in isolamento. Nel 1928 è tradotto a Roma per il processo che si conclude con la condanna, emessa dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato, a oltre venti anni di reclusione da scontare nella casa penale di Turi a Bari. Nel 1932 un’amnistia per il decennale del regime fascista riduce la pena a 12 anni, ma colpito da grave malattia le sue forze di resistenza stanno per crollare, rifiuta di presentare la domanda di grazia, gli è concessa la libertà condizionale. Ricoverato in varie cliniche, colpito da emorragia cerebrale, pochi giorni dopo aver riacquistato la piena libertà, muore a Roma il 27 aprile del 1937.
Durante il periodo di carcerazione, il giovane deputato legge, pensa, studia, traduce, scrive lettere. Assistito dalla cognata Tatiana, sorella della moglie Giulia che vive in Russia con i suoi due figli, Gramsci le affida il racconto della prigionia e delle privazioni attraverso numerose lettere. Nel gennaio del 1929, per motivi di salute ottiene di stare in una cella da solo e il permesso di scrivere. Progetta letture sistematiche e di approfondire i temi di suo interesse, chiedendo libri.
Gramsci lavora fino al 1935 ai trentatré Quaderni, di cui quattro di traduzioni, non progettati per la pubblicazione ma scritti senza il pensiero condizionante di affidarli alla stampa. L’originalità e la ricchezza delle riflessioni gramsciane sono testimoniate dagli oltre 20 mila titoli in 41 lingue registrati dalla Bibliografia gramsciana.
Ora quei Quaderni sono esposti alla Camera dei deputati nel Corridoio dei Busti, sotto lo sguardo marmoreo e severo di Giolitti, De Petris, Matteotti, Turati e altri che fecero parte del parlamento italiano in un passato non lontano. Antonio Gramsci torna nel palazzo di Montecitorio, dove è stato per un breve tempo ed è intervenuto una sola volta, nella seduta del 16 maggio del 1925.
Le copertine di quei Quaderni sono contrassegnati dal numero 7047, matricola del detenuto Gramsci, dal timbro del carcere di Turi e dalla firma del direttore, e così anche quelle dei cento volumi – considerando libri e riviste- selezionati per la mostra fra i 291 che entrano nelle carceri su richiesta di Gramsci stesso. I manoscritti si possono sfogliare nella versione digitale e anche le immagini delle copertine dei libri. È sorprendente scoprire la varietà di interessi rappresentati dai volumi da lui richiesti alla libreria presso la quale Piero Sraffa ha aperto un conto illimitato a beneficio dell’amico. Ne elenchiamo alcuni: Amo dunque sono di S. Aleremo, Il diavolo a Pontelungo di R. Bacchelli, Corso di scienza e finanza, tenuto da L. Einaudi, Autobiografia di M. Gandhi, Croce di F. Flora, A l’ouestrien de nouveau di E. M. Remarque, Guerra e pace di L. Tolstoj, La vie de Goya di E. d’Ors, La Rassegna mensile dell’Educazione fascista.
Sul touch screen scorrono i suoi scritti e le copertine dei libri con qualche notazione di Gramsci presa dai Quaderni o dalle Lettere. A esempio: accanto alla copertina del libro di M. Barbi, Dante, Vita, Opere, Fortuna leggiamo l’esortazione rivolta in una lettera alla cognata: «Ti prego di scrivere alla libreria che mi spedisca il volumetto di Barbi. Non so resistere alla tentazione di avere questo lavoro». La solerte Tatiana ha provveduto a soddisfare la richiesta perché il libro è arrivato, lo dimostra il contrassegno del numero di matricola, il timbro e la firma del Direttore. Accanto a Teatro shakespeariano di P. Bardi, si legge: «ogni tragedia è poesia e arte anche fuori del teatro e dello spettacolo».
Nessuno strumento della tecnologia può tuttavia procurare quel sentimento di stupore e commozione alla vista delle copertine dei quaderni in cartoncino flessibile di colore violaceo marmorizzato, o rigido di colore nero lucido, o rosso bruno, con il numero delle pagine talvolta scritto a matita dal detenuto stesso, e di quella grafia a caratteri minuscoli sempre uguale pagina dopo pagina, e quel numero di matricola a indicare che in carcere si perde la propria entità di uomo sostituita da un numero. Né la durezza del carcere né il potere dispotico del regime riesce a piegare Gramsci che conserva i suoi ideali, le passioni e il suo argomentare sulla funzione degli intellettuali che devono farsi interpreti delle esigenze delle masse popolari, portandone avanti le istanze per la loro emancipazione. Inutilmente il pubblico ministero Michele Isgrò aveva tuonato durante il processo che lo condannerà: «Per vent’anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare».
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