Una nuova torre di Babele | Michela Porcaro

Dal numero 89 dell'aprile/giugno 2009

Da paese di antica emigrazione, negli anni ’70, l’Italia si trasforma in paese di immigrazione. Il processo di industrializzazione è disordinato e poco maturo e l’Italia, non ancora fornita di efficienti sistemi di welfare, importa lavoratori migranti, provenienti soprattutto dalle sponde meridionali del Mediterraneo, che possano soddisfare la domanda di lavoro faticosa, pericolosa, declassante e poco appetibile per un milione e mezzo di Italiani disoccupati.

Nel 1989, con la caduta del Muro di Berlino, mentre le democrazie popolari e l’Unione Sovietica sono impegnate nella ricostruzione economica-politica, l’Italia assiste a una nuova ondata migratoria, questa volta di albanesi, rumeni, jugoslavi, polacchi, macedoni, croati, russi, bosniaci.

Ed è in questo periodo che l’Italia passa dalla fase di indifferenza a quella di emergenza. La presa in carico del problema avviene con la legge Martelli del 1990, a cui seguono interventi legislativi tesi a dare organicità alla materia: la legge Turco-Napolitano del 1998 e la legge Bossi-Fini del 2002. Il governo interviene solo di fronte alla cosiddetta emergenza, sistematicamente in ritardo, con una politica migratoria che si colloca a metà guado, tra l’impossibilità di tornare indietro e l’incapacità di andare decisamente avanti. Anche l’immigrato, pericoloso naturalmente e colpevole ontologicamente, viene introdotto alla filosofia della precarietà, deprivato come è dei diritti umani fondamentali (diritto alla salute, all’unità familiare, all’habeas corpus). E in tal proposito è interessante guardare alle lucide analisi condotte da Annamaria Rivera.

Ed è il Consiglio d’Europa, dopo le Nazioni Unite, con il rapporto Hammarberg del 2008, a mostrare seria preoccupazione per le tendenze xenofobe e razziste, sempre più evidenti in Italia e fomentate da imprenditori politici del razzismo che ben capitalizzano, attraverso i voti, i risultati di un’astuta opera di eccitazione di sentimenti diffusi nell’opinione pubblica, quali le ingiustificabili paranoie da invasione. Mai l’Italia ha pensato all’immigrato come nuovo cittadino a cui dedicare un progetto più preciso di integrazione che, banditi definitivamente xenofobia e razzismo, rimedi alle vessazioni di tipo burocratico, elimini le disparità, finanzi le attività di supporto all’integrazione, riveda l’antiquata normativa sulla cittadinanza e faciliti la partecipazione degli immigrati tramite il diritto di voto amministrativo, in un contesto societario unitario quanto a regole, diritti e doveri, ma rispettoso delle diversità culturali e religiose. Lo straniero, e qui è d’obbligo richiamare Robert Ezra Park e la Scuola dell’ecologia sociale urbana, è uomo psichicamente diviso tra due società mai completamente fuse e compenetrate; è un ibrido culturale che non rompe con la propria tradizione, ma cerca di partecipare intimamente alla tradizione di un popolo diverso; è uomo elastico, assimilatore e, nello stesso tempo, portatore di nuova cultura. In quest’ottica, la migrazione diventa una condizione imprescindibile per lo sviluppo della civiltà, in quanto permette e causa il contatto, ma anche il conflitto e la tensione, di popoli e culture. La civiltà si alimenta delle differenze, piuttosto che del solo processo evolutivo endogeno. Si tratta allora di tutelare le peculiarità di ciascuna cultura all’interno di uno spazio condiviso, senza che l’una si giustapponga all’altra, impedendo le possibilità di dialogo. Si tratta di favorire l’interculturalismo, che implica incontro tra culture e condivisione dello spazio tra le diverse etnie, piuttosto che il multiculturalismo, che pur collocando varie etnie nello stesso spazio, difficilmente implica incontro, o anche solo confronto. “Il multiculturalismo porta alla Bosnia e alla balcanizzazione; è l’interculturalismo che porta all’Europa”, afferma Giovanni Sartori.

Per poter andare decisamente avanti bisogna ancora incominciare a percorrere diverse tappe: relativizzare la propria cultura e superare l’etnocentrismo per costruire una nuova Torre di Babele, che sia progetto e luogo fisico in cui riunire le diverse voci in un coro così vario, e talvolta anche stonato, da generare paradossalmente una piacevole e unica melodia, da tutti comprensibile.

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