Cosmopolitismo e appartenenza | Alfonso Iacono

Dal numero 89 dell'aprile/giugno 2009

Non sono riuscito ancora a trovare una descrizione del razzismo migliore di quella che si trova ne I sommersi e i salvati di Primo Levi. Lì, infatti, il razzismo è associato al rapporto tra potere e identità collettiva. Accade che gli ultimi arrivati nella sfera dei privilegiati diventano i difensori più crudeli e spietati di quella stessa sfera. Sentirsi dentro un’identità perché contro gli altri, contro quelli che stanno fuori. Come è noto, nell’analisi del lager Primo Levi racconta dei kapo, i quali sono ebrei e sanno di dover morire, eppure si prestano a fare gli aguzzini degli ebrei prigionieri. Strumenti del razzismo nazista essi sconvolgono quel senso comune a cui piace semplificare e dividere in bianchi e neri, in buoni e cattivi. Ma dove possono essere collocati i kapo? La loro figura ci suggerisce che lo stesso razzismo rappresenta un aspetto particolare e tragico delle relazioni di potere divenute, per dirla con Foucault, stati di dominio. Non è il razzismo che spiega il dominio, ma è il dominio che spiega il razzismo.

Il razzismo è senza dubbio legato a quel processo in cui la propria identità personale va a confluire nell’identità collettiva, ma è an che connesso a un carattere particolare di tale identità collettiva, il consenso.

Karl Marx aveva scritto che l’uomo isolato può essere concepito culturalmente e letterariamente soltanto in una società in cui i rap porti sociali sono già molto sviluppati, ma aveva trascurato di dire tuttavia che anche in tali rapporti avanzati l’isolamento non si traduce in autonomia individuale, bensì, assai spesso, in quel bisogno di riconoscimento che può portare all’omologazione nel branco. A causa di questo bisogno di riconoscimento, umanissimo, si può arrivare fino al razzismo, cioè alla ricerca di un’identità collettiva che si alimenta dell’esclusione di un tipo determinato di diversità. Sono riconosciuto parte del gruppo in quanto ho qualcosa in comune con tutti i suoi componenti e questo qualcosa in comune mi distingue da chi non ce l’ha. È così che si forma l’esercito volontario dei difensori del potere di un’élite che domina.

Mi rendo conto di semplificare un po’ troppo, ma in certi casi forse è necessario. Il meccanismo del dentro e del fuori non è una caratteristica specifica del razzismo. Tutt’al contrario è il modo che abbiamo di delimitare simbolicamente i nostri mondi simbolici. Nel sacro così come nel gioco, per esempio, il rapporto tra dentro e fuori è decisivo. Nel sacro esso si dispiega nella distinzione con il profano, nel gioco nella distinzione con il non gioco. Senza contesto noi non sapremmo dare senso alle nostre parole e alle nostre comunicazioni e il contesto è una cornice che delimita l’universo delle parole, dei gesti, delle relazioni. Ogni agire simbolico ha un altrove. Una bandiera rappresenta un’identità collettiva che chiamiamo nazione: essa ci dice quel che accomuna coloro che ne fanno parte, ma naturalmente e implicitamente ci distingue da coloro che non ne fanno parte. Ma questo vale anche per le squadre di calcio, per le città, per le università, ecc.

Il punto è che, quando la contrapposizione con l’altro si accentua fino a diventare determinante per l’identità collettiva, allora il razzismo si affaccia e può coinvolgere perfino coloro che per bisogno di
riconoscimento provengono dall’altrove. Anzi, di solito, questi sono il punto di confine grazie a cui si esercita il dominio. Il cristianesimo uscì dalle razze, ma pretese di convogliare tutti nell’evangelizzazione, cioè in quel processo di universalizzazione che negando i particolari si con figurava tuttavia come qualcosa che escludeva chiunque non accettasse la dottrina. L’illuminismo uscì dalle razze, ma sottovalutò il senso dell’appartenenza sulle cui basi va a formarsi l’identità collettiva. Curioso! I due grandi movimenti, il cristianesimo e l’illuminismo, hanno qualcosa di importantissimo in comune che oggi si perde in contrapposizioni molto ideologiche e piuttosto sterili. Al cristianesimo e all’illuminismo
sfuggì il fatto che l’universalismo esclude, che può benissimo convivere con il razzismo, che spogliare gli uomini della propria appartenenza è un errore. Il problema non è lì, ma nella pretesa di omologare un’identità che è chiamata universale.

Si può invocare il cosmopolitismo e nello stesso tempo reclamare la propria appartenenza? Il punto è proprio questo. Cosmopolitismo e appartenenza devono necessariamente coesistere e mantenere quella tensione atta a creare una sorta di equilibrio omeostatico senza il quale il razzismo può emergere con la faccia pulita dell’universalismo o con la faccia sporca del branco.

Sono importanti la memoria e la storia. Una mia cara amica, ebrea, la cui sorella ha marchiati sul braccio i numeri del lager, un giorno mi confessò la sua preoccupazione, con un tono che annunciava il razzismo, per la presenza di albanesi nel nostro paese. Le espressi dolcemente la mia sorpresa, ricordandole che forse non avrebbe voluto che si pensasse di altri popoli ciò che si è pensato degli ebrei.

Il rischio dell’oblìo è altissimo, ma è altrettanto alto il ricorso al passato per rafforzare manipolando la l’identità collettiva. Le tradizioni si inventano e spesso rendono rigida e conservatrice un’identità collettiva che cerca una via di liberazione e, dopo averla trovata, lotta per poterla percorrere. “Tramite il senso del passato – ha scritto Immanuel Wallerstein – le persone si convincono ad agire nel presente in modi in cui altrimenti non agirebbero. Il senso del passato è uno strumento che si usa contro gli avversari; è un elemento fondamentale per la socializzazione degli individui, per il mantenimento della solidarietà del gruppo, per lo stabilirsi della legittimazione sociale o per la sua sfida. È quindi innanzitutto un fenomeno morale, quindi politico, ed è sempre temporaneo. Proprio per questo è così instabile”. A volte l’instabilità porta a trasformare in razzismo quel che nasceva come scoperta e riconoscimento della propria identità. L’uscita dallo stato di minorità può portare a un’autonomia che si accompagna all’arroganza, all’esclusione, all’aggressione.

Inoltre, quando il proprio bisogno di riconoscimento si traduce nell’ottenimento di un privilegio, esso
può portare a non riconoscere l’altro. Il problema è sempre quello di un potere che si trasforma in dominio e che ottiene un consenso di cui potersi alimentare.

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