Sviluppo insostenibile | Cristiano Benelli

dal numero 76 dell'ottobre-novembre 2006

L’età dell’energia facile ha imboccato il suo viale del tramonto. Basta considerare un dato relativo al petrolio: per circa 140 dei suo 150 di vita come prodotto industriale, sono bastati 5 barili di greggio ogni 100 per fornire l’energia necessaria ad estrarlo, trasportarlo e trasformarlo nelle cento cose che ci circondano. Negli ultimi 10 anni siamo passati a 15 barili su 100 con tendenza all’aumento: questo semplice dato è indice della difficoltà a trovare nuovi giacimenti, a sfruttarli ed a ricavarne il greggio. Analoga sorte attende le altri fonti di energia classiche: carbone, uranio, gas naturale. Quanto tempo ci vorrà ad arrivare al punto in cui costerà più energia estrarli di quanta se ne ricavi non è un dato realmente rilevante: queste fonti coprono circa l’85 % del fabbisogno mondiale di energia e anche la semplice diminuzione progressiva della loro efficacia apre scenari di evidente complessità. Sarebbe utile sottolineare che probabilmente a questi ritmi di consumo e di crescita della popolazione terrestre, l’acqua finirà prima del petrolio, ma questo dato sembra appassionare meno i salotti che contano.

Se teniamo conto che una tecnologia veramente innovativa ha bisogno di non meno di 15-20 anni per entrare produttivamente sul mercato, e mediamente un periodo altrettanto lungo per raggiungere un grado di efficienza ragionevole, balza agli occhi l’urgenza di sviluppare la ricerca verso serie alternative a queste fonti di energia. Purtroppo bisogna prendere atto che non esiste a livello collettivo e condiviso una forte coscienza del problema. Non si discute e non si fa ricerca in maniera concreta schiacciati come siamo tra due massimalismi urlanti. Da un lato tuonano i pretoriani della scienza dura e pura. Quelli che dicono “Tranquilli, tutto si aggiusta. Basta investire (meglio se nella mia ricerca) e nel giro di pochi anni il problema energetico sarà risolto”. Di fatto non ci sono in giro idee veramente innovative che indichino su cosa puntare ed è difficile raggiungere buoni risultati in un campo così complesso navigando a vista. Sull’altro fronte sono schierate le vestali dell’Arcadia prossima ventura che, partendo da una corretta necessità di ridurre l’impatto dell’attività antropica sull’ambiente, illudono e si illudono che basti qualche pala rotante nel vento o qualche pannellino solare sul tetto e tutto potrà continuare come prima compresa l’aria condizionata per la cuccia del cane.

Dobbiamo superare rapidamente questi integralismi partendo dal punto, fermissimo, che il pianeta è quello che è e che non possiamo adattare le leggi di natura ai nostri desiderata.

La prima considerazione da cui partire è che noi umani l’energia non la produciamo: lo si dice ma non lo si fa. Riusciamo a trasformare una forma di energia in un’altra e, incrociando le dita, sperare che, durante la transizione, le inevitabili perdite in quantità e qualità non siano troppo grosse. Tutto questo con buona pace dei cantori dell’energia pulita e di gran parte delle fonti rinnovabili. I combustibili fossili e l’uranio stesso sono stati accidenti casuali e fortunati per noi nella storia della Terra. In queste sostanze si è immagazzinata in milioni di anni una grande quantità di energia solare, geotermica e geologica: noi l’abbiamo solo estratta. E di questi eventi ne capita uno nella storia di un pianeta.

Il secondo punto su cui conviene soffermarsi è quello della qualità odierna della vita e dell’energia richiesta per garantirne il livello. In genere c’è una buona proporzionalità diretta tra il reddito pro capite in una nazione ed il consumo medio di energia per cittadino. Qualcuno sta molto sotto (i paesi con reddito pro capite dalle parti dei 100 dollari l’anno) o mostruosamente sopra (U.S.A., ed anche l’Europa Occidentale). Se ci poniamo il problema di far crescere la qualità della vita nei paesi dove quest’ultima è poco più che pura sopravvivenza, dobbiamo cominciare ad investire nelle nazioni a reddito praticamente nullo e, per quanto minimi siano, questi interventi richiedono nuova energia. Se si fanno giusto due conti, ci si accorge subito che anche senza questo fondamentale dato di crescita, i pur risibili limiti posti dal protocollo di Kyoto sulla produzione di anidride carbonica (sostanzialmente prodotta attraverso l’uso dei combustibili fossili) sono irraggiungibili sulla base delle tecnologie odierne. Se poi ci aggiungiamo la non eludibile necessità di produrre più energia come accennato poco sopra, il banco salta. E non si rimettono i cocci insieme con l’eolico, solare e quant’altro. Sono tecnologie utili ma ancora assolutamente marginali. Basta fare due calcoli per scoprire che una cosa è basarsi sull’indubbia efficacia dell’impianto sul tetto per scaldare l’acqua ed una cosa è valutare le dimensioni del fenomeno quando si sposta il problema alla produzione di quantità significative di energia. Ad esempio, sarebbero necessari centinaia di migliaia di chilometri quadrati di pannelli fotovoltaici, contro una produzione complessiva degli ultimi venti anni di circa 3 chilometri quadrati. Ed inoltre c’è un problema regolarmente sottaciuto quando si parla di fonti eco-compatibili che è quello della localizzazione ottimale degli impianti per sfruttare i venti dove sono intensi, le maree dove sono alte, il sole dove picchia forte. Se tutti i pannelli solari vanno messi nel Sahara per avere la massima efficienza, c’è poi il piccolo problema di come quella energia elettrica arriva in Islanda o ai tosatori di pecore dell’Australia. Oggi la sappiamo trasportare solo con i fili e, se si considerano cose come le cadute di tensione o la dispersione per effetto Joule (scusate il tecnicismo, ma è ubbidendo a queste leggi che ci arriva la corrente a casa), si scopre rapidamente che di energia prodotta in realtà se ne perderebbe la stragrande maggioranza per la strada.

Piantiamola quindi di parlare di sviluppo sostenibile. È evidente che sviluppo vuol dire comunque più energia e nel nostro mondo se ne consuma complessivamente una quantità ben al di sopra della sostenibilità. Dovremmo iniziare a discutere non come ridistribuire la ricchezza partendo dalla frase idiota secondo la quale “Prima di distribuirla, la ricchezza dobbiamo produrla” e porci, invece, il problema della distribuzione dell’energia attualmente prodotta spostandola da coloro che in maniera del tutto abusiva la sprecano, a quelli a cui la stiamo rubando avendo ben in mente che allo stato attuale delle conoscenze non ci può essere che un obiettivo finale: ridurne il consumo globale.

Sono perfettamente cosciente che questo vuol dire cambiare non il modello di sviluppo (frase molto retorica ma sostanzialmente flatus voci) ma il modello economico di produzione: produrre di più per guadagnare di più ha solo l’effetto di arricchire i soliti e disperdere un bene prezioso che è di tutti. Sento già la risposta: “Utopia”. Può essere senz’altro: l’importante è esserne coscienti e smettere di piangere sulle povertà altrui continuando spensieratamente a sperperare il bene di famiglia. Tanto quando si va a fondo ci si va tutti insieme: quelli che ballano sul ponte e quelli che soffocano nelle stive.

A proposito, quando cestinate questa rivista, mettetela orgogliosamente nell’apposito cassonetto della carta: può darsi che se e solo se in questo momento il mercato della carta da macero tira, non finisca in un inceneritore ma, dopo aver inquinato qualche ettolitro di acqua, rinasca per contenere più alati pensieri.

Un’ultima preghiera: visto che siete arrivati eroicamente alla fine, ricordatevi di spengere la luce perché una lampadina da 100 watt richiede la produzione nella centrale elettrica di 600 watt e poi delle 100 che vi arrivano 5 servono a farvi luce e le altre 95 a bruciacchiare qualche sprovveduta falena.

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