Mafia e democrazia | Alfonso Maurizio Iacono

Dal numero 98 di marzo-aprile 2011.

Un tempo esisteva un quotidiano che si chiamava L’ora. Era stampato a Palermo e usciva il pomeriggio. Era l’epoca in cui non c’era internet. I giornali nazionali arrivavano nella mia città in tarda mattinata. E poi c’era L’ora. Prima di questo quotidiano la mafia non esisteva. Poi fu chiamata con il suo nome. La forza della mafia consiste probabilmente nel fatto che è connaturata dentro ogni sistema politico particolarmente esposto alla corruzione come mezzo di mantenimento del potere. La mafia radicalizza questo aspetto e cresce nelle pieghe di relazioni dove l’etica pubblica ha un peso piuttosto scarso.

La mafia vive dello Stato e incorpora i valori più diffusi, religiosi e civili, di una società. Non si mostra e non si dichiara come tale. Ha bisogno di quell’illegalità così facile da reperire ovunque. Nonostante la mafia abbia una sua specificità che non deve essere sottovalutata e che si diversifica da luogo a luogo, essa è un po’ la metafora crudele e feroce di tutto il nostro mondo. Perché ha tanto silenzioso consenso? Una componente fondamentale è sicuramente data dalle minacce e dalla violenza e dunque dalla paura. Più si è feroci più vi è identificazione della vittima con il carnefice. Ma questo non spiega tutto. In molti casi la mafia funziona da regolatore dei rapporti economici, ma anche umani. Il problema della mafia, delle mafie, non è soltanto la violenza, ma la capacità di governo nascosto delle relazioni. In un certo senso, funziona un po’ come il paradosso dei sacchi per i rifiuti o le borse della spesa fatti con materiale che rispetta l’ambiente. È vero che non inquinano, ma o costano assai di più oppure si rompono più facilmente di quelli della ormai desueta plastica. Probabilmente il pizzo alla mafia è meno costoso e più sicuro per il commerciante di ciò che può offrire lo Stato. E questo vale non solo per i commercianti, ma anche per i singoli cittadini. È un meccanismo che si sta diffondendo nel nostro paese, dove la legalità è un valore per delle minoranze, che in molti casi sono benestanti. Nell’illegalità forse si vive peggio, ma la vita è meno cara. Ciò porta anche i cittadini onesti a non sentire l’illegalità come un problema di fondo, anche perché nel nostro paese essa è diffusa ovunque. I giornali e la tv sono pieni di notizie su corruzioni e scandali.

Il quadro che affiora è quello di una inevitabilità della corruzione. Il trucco sta nel non lasciarsi cogliere sul fatto, nel fare le cose, come si dice, per bene. I mass media danno un’immagine falsa di quel che accade, perché il politico indagato o arrestato non suscita nel senso comune indignazione, quella che poi dichiarano gli altri politici e gli uomini delle istituzioni, ma rottura di una complicità implicita. Se sei abbastanza furbo da rubare senza farti scoprire, non ci sono problemi; se non lo sei, allora devi essere condannato non per ragioni morali, ma per incapacità tecnica nel tentativo di truffa, di peculato, di furto. Perfino il garantismo complica le cose, perché dietro un principio sacrosanto e irrinunciabile, una giustizia che è anche tecnicamente molto più sensibile ai ricchi e alle loro possibilità di pagare meglio avvocati e altro, finisce spesso con il proteggere i delinquenti in doppiopetto. Il messaggio è chiaro: è il potere che conta, è la forza che prevale. L’etica viene dopo, sta in subordine, buona per la facciata.

Vi è tuttavia una domanda che bisogna farsi. La mafia vive ed esiste perché vi è uno Stato. L’antistato mafioso è del tutto complementare e interno allo Stato legale e funziona in seno ai traffici economici illegali. La domanda è se il sistema democratico, all’interno del modo capitalistico di produzione e dunque della circolazione delle merci, non sia il terreno più favorevole per il radicamento di sistemi mafiosi che si presentano come autentici regolatori parastatali del mercato economico. Ciò che sta dietro una simile domanda è un’altra domanda: quale rapporto è sussistito e sussiste tra i regimi totalitari e i sistemi mafiosi?

La risposta facile sarebbe che i regimi totalitari, a cominciare da quelli comunisti, erano corrotti e dunque mafiosi. Risposta facile, ma che non coglie il punto. La corruzione negli apparati dello Stato non è la stessa cosa della mafia. Se così fosse dovremmo allora generalizzare fino all’indistinto la definizione di che cosa sia mafia. E del resto, non si può negare che nei paesi dell’Europa Orientale, dopo la caduta del muro di Berlino e l’insediamento dei sistemi democratici, il peso della mafia è aumentato enormemente, così come non si può negare che la mafia nel nostro paese ha riacquistato presenza e potere dopo la fine del fascismo. Il vero problema, a mio parere, è il fatto che la mafia si pone come regolatore illegittimo del mercato, là dove lo Stato dovrebbe esserne il regolatore legittimo.

Karl Polanyi, nel suo importante libro, La grande trasformazione, del 1944, sostenne che lo Stato nella società capitalistica interviene per far fronte al caos prodotto del mercato, un caos che porterebbe inevitabilmente e realmente il sistema sociale alla condizione autodistruttiva descritta idealmente da Hobbes, quella del bellum omnium contra omnes. Polanyi affermava addirittura che ogni forma di organizzazione collettiva tendeva ad assicurare la regolazione del mercato, a cominciare dai sindacati, che come è noto, avevano (lo hanno ancora? lo spero) la funzione di difendere il lavoratori dallo stato selvaggio e privatistico del mercato del lavoro. Se si segue l’idea di Polanyi, la mafia è un’organizzazione regolatrice del mercato che si colloca e cresce clandestinamente e illegalmente a fianco dello Stato e delle forme di organizzazione collettiva e sociale, che tanto più può affermarsi quanto meno lo Stato è presente nella sua autonomia istituzionale.

Che cosa intendo dire? I regimi totalitari identificano direttamente il politico e l’istituzionale, mentre i sistemi democratici accentuano fortemente (o dovrebbero accentuare) la distinzione fra ciò che è politico e ciò che è istituzionale e dunque la divisione dei poteri. L’etica acquisisce una sua autonomia proprio grazie a tali distinzioni e divisioni. Quando lo Stato interviene come regolatore sociale del mercato deve necessariamente mantenere la sua autonomia istituzionale. Se non lo fa (come quasi sempre accade) allora la politica si sovrappone all’istituzionale, lo sostituisce e produce pericolose ingerenze. I politici sono eletti e devono rendere conto agli elettori e se i pacchetti di voti sono forniti dalla mafia allora scattano i bandi truccati, le tangenti, ecc.

Si tratta di un sistema perverso di regolazione del mercato dentro un sistema democratico che si accentua fortemente quando l’ideologia politica dominante è il mito del libero mercato autoregolato accompagnato dalla metafora della mano invisibile (metafora che troverete citata in quasi tutti i siti che trattano della globalizzazione). In tal caso lo Stato, come scrisse Marx, diventa uno strumento per i fini privati degli individui e dunque viene piegato totalmente o quasi a questo gioco. Credo che se non si cerca di affrontare questi problemi, combattendo contro quell’idea e quella pratica dello Stato e difendendo la distinzione tra istituzionale e politica, l’unica alternativa alla lotta contro la mafia resti la giustizia. Ma quest’ultima può occupare anche il posto che pertiene alla politica? La può sostituire? Penso francamente di no.

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