Si dice: Nulla sarà più come prima. Ma esiste un soggetto sociale e politico capace di lottare perché questo bell’auspicio si realizzi? Se no, possiamo aspettarci che tutto sarà peggio di prima.
Le crepe
Quando dalla Cina il COVID-19 si diffuse in Europa, sconvolgendo la vita sociale e il sistema produttivo, furono in molti, non solo tra le sparute pattuglie dei rivoluzionari, a vedere le crepe che l’epidemia mostrava nel modello di sviluppo neoliberista imposto al mondo e le debolezze delle nostre democrazie. Nulla sarebbe più stato come prima, conclusero. Il massiccio intervento pubblico nel sistema sanitario e nell’economia, di dimensioni mai viste, avrebbe modificato la relazione tra Stato e mercato. Sarebbe stato evidente che a orientare gli investimenti dovevano essere l’interesse nazionale e il bene collettivo, non il mercato.
I più spericolati si posero la domanda se non fosse giunto il momento di privilegiare la funzione pubblica dell’economia rispetto al profitto privato ponendo le basi per uscire dalla crisi con un nuovo modello economico. L’intervento dello Stato infatti non avrebbe potuto limitarsi all’assistenza, cioè a salvare le aziende dalla crisi di liquidità e i poveri dalla fame, ma avrebbe dovuto orientare appunto gli investimenti verso i settori fondamentali per l’interesse collettivo e non per il profitto privato. Si parlò persino di un rilancio di qualche forma di cogestione delle imprese, di pianificazione addirittura.
E invece…
Il fatto è che per fare la rivoluzione come per sostenere un processo, sia pure limitato, di riforme occorre un soggetto sociale e politico portatore di una nuova visione delle cose, una volontà capace di unire coloro che vogliono il cambiamento indicando e condividendo gli obiettivi della lotta. Perché di questo si tratta, di una lotta, non basta un’opinione, non basta la pazienza di attendere perché tanto la situazione evolverà da sé verso la società migliore.
Se decliniamo questo discorso in relazione alle classi sociali (esistono ancora? Sì, almeno nel senso che i padroni sono impegnati nella lotta di classe contro i lavoratori), individuiamo il soggetto del cambiamento nella classe operaia. In effetti, considerata l’effimera durata dei nuovi movimenti di questo millennio, viene spontaneo, unendo in uno stesso sguardo passato e futuro, riconoscere quanto bisogno ci sarebbe oggi di una classe operaia consapevole, capace di affrontare le crisi del capitalismo e l’incombente catastrofe ambientale costruendo un nuovo modo di produrre e una società giusta.
L’inchiesta
Esiste ancora la classe operaia? Sì, esiste. Anzi, non ci sono mai stati tanti operai nel mondo come adesso. Se però si va oltre il significato sociologico, se si considera la classe operaia protagonista della lotta per liberare l’umanità dallo sfruttamento del lavoro salariato estinguendo se stessa come classe, allora, in questo senso si può dubitare che questa classe esista.
Poiché siamo di quelli che s’ispirano a Marx, a Galileo e pure a San Tommaso, abbiamo deciso di andare a toccare con mano. Siamo entrati in un Gruppo operaio d’inchiesta che stava svolgendo un’indagine in una importante fabbrica che ha oltre 1000 dipendenti (il 40% interinali) e produce per il mercato mondiale in un settore ad alta tecnologia. Non ne facciamo il nome perché questi tempi difficili consigliano l’autocensura. L’inchiesta si è basata sul questionario (ovviamente aggiornato) che nel 1964 il gruppo dei Quaderni rossi fece circolare fra gli operai della FIAT di Torino, nella speranza probabilmente che, come quello, contribuisse a rafforzare la soggettività operaia e a sviluppare un ciclo di lotte decisive per la società italiana.
Chi sono gli operai che hanno risposto al questionario? Alta età media e lunga anzianità di lavoro (20-30 anni), fortemente sindacalizzati (rappresentanze di fabbrica elette dall’80% dei lavoratori interni; 75% dei voti ai confederali, nonostante il giudizio sulla loro politica sia durissimo quando non sprezzante). Del campione uno solo non è iscritto a sindacati, ed è l’unico dipendente da ditta esterna, giovane e con breve anzianità di servizio. Si tratta quindi di una classe lavoratrice formalmente garantita, che potrebbe essere abbastanza libera di agire come anche, nello stesso tempo, avere molto da perdere.
Quali le risposte? Il primo dato macroscopico è che manca quasi del tutto la percezione del conflitto, che la formulazione delle domande dava invece per scontato. D’altra parte, la metà degli operai dice di non avere partecipato negli ultimi vent’anni a nessuna lotta. Nemmeno per i contratti? Nemmeno, perché al momento del rinnovo i sindacati si presentano con l’accordo già sottoscritto con la direzione aziendale e i lavoratori approvano (a larga maggioranza). Questo tipo di relazione esclude l’antagonismo ma anche la cogestione, mantenendo ogni parte il proprio ruolo. L’azienda esercita un attento controllo sulle attività sia politiche sia ricreative svolte dai lavoratori, che di questa vigilanza hanno ragionevole timore.
Parziale è la percezione degli effetti che le innovazioni tecnologiche hanno sull’organizzazione del lavoro. Solo metà del campione rileva taglio dei tempi e trasformazioni organizzative con la conseguente intensificazione dei ritmi di lavoro, che ricadrebbe soprattutto sui lavoratori interinali.
In sintesi, una classe operaia abbastanza integrata che non contesta il proprio ruolo subordinato.
Essendo questa la situazione, il Gruppo operaio si era dato l’obiettivo di continuare l’inchiesta con l’analisi del processo produttivo e dell’organizzazione della fabbrica.
Ma è arrivato il COVID -19. Attraverso il Gruppo abbiamo seguito lo sviluppo della situazione nella fabbrica.
L’epidemia
Nella situazione d’emergenza accadde l’inaspettato. Contro la decisione dell’azienda di continuare la produzione dopo il primo DPCM di marzo, partì uno sciopero di otto ore che coinvolse l’intera fabbrica. Un evento straordinario nella sua storia recente, come se la minaccia alla salute, alla vita stessa, avesse risvegliato la coscienza di classe. Non era la difesa della nuda vita, che nella sua radicalità può togliere valore alla difesa di principi e diritti che in condizioni ordinarie appaiono irrinunciabili. Si ebbe, al contrario, l’impressione che nell’emergenza molti lavoratori prendessero coscienza della propria forza. Il cambio di prospettiva fece circolare l’idea che fosse arrivata l’occasione di riprendersi tutto ciò che era stato tolto negli ultimi anni: dal tempo indeterminato alla scala mobile, ai contratti nazionali. Sembrò un obiettivo minimo rafforzare sanità, istruzione e ricerca pubbliche e gratuite.
Insomma, nella crisi devastante i lavoratori avrebbero potuto imporre i loro bisogni, la loro visione. Ma gli operai hanno una loro visione, cioè un punto di vista sulla realtà diverso da quello dominante?
L’antagonismo durò poco. Un accordo locale tra azienda e sindacati portò alla chiusura della fabbrica, poi prorogata di due settimane rispetto all’accordo nazionale. L’accordo prevedeva la copertura della prima settimana con le ferie residue e poi cassa integrazione. Ai lavoratori venne chiesto l’impegno (non obbligatorio) di recuperare la chiusura forzata con lo straordinario e la riduzione delle ferie estive da 3 a 2 settimane. Anche gli interinali avrebbero usufruito della cassa integrazione.
I compagni del Gruppo criticarono duramente l’utilizzo delle ferie e il recupero di 10 sabati di straordinario (80 ore contro le 40 perse), ma dovettero confrontarsi con lo scetticismo sulla possibilità di trovare spazi per contrattare migliori condizioni per i lavoratori, a partire dalla questione degli straordinari. Con questo accordo l’iniziativa operaia di fatto si spense. Il rientro in fabbrica, completato a metà maggio, e la ripresa della produzione non modificarono la situazione. D’altra parte, sul piano nazionale la diffusione del Documento della commissione Colau confermò il tentativo di ritornare al solito ordine: la società disegnata sul modello dell’impresa cioè sull’aumento costante della produttività. Confindustria attaccò in forma inaudita il Governo per condizionarlo nell’intento di accaparrarsi le risorse e piegare ancor più la forza-lavoro agli interessi della produzione.
La lotta di classe la fanno i padroni.
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