PER UNA DIALETTICA DELLA PAURA
1 Le passioni
Nel corso della nostra storia le passioni sono state per lo più percepite come fattori di turbamento, e dunque in qualche modo considerate componenti scomode della nostra vitalità, da limitare o reprimere. L’uomo ideale della nostra epoca, quello disegnato dalla ideologia della efficienza, è un soggetto capace di contenere le passioni, di tenerle a distanza, riservandole unicamente alla sfera di espressione degli artisti o ai momenti di svago e rigenerazione necessari per mantenere integra e, appunto, efficiente, la capacità erogativa dell’individuo. In un suo bellissimo libro, Remo Bodei racconta come, in questa epoca, le passioni siano diventate strumenti di dominio politico, che, al pari di ogni altra componente della nostra “umanità”, possono essere scientificamente utilizzare al servizio di disegni di potere.
2 Gli antichi
La rilettura della mitologia ci aiuta di sicuro a riflettere sulla nostra situazione. La interpretazione delle più antiche storie dell’umanità, riferite a tempi nei quali non si erano ancora prodotti i processi di rimozione attuati dallo sviluppo successivo della vicenda culturale dell’uomo, ci dice che il mito è un riflesso e una rielaborazione dell’inizio della vita psichica del nostro genere, di quell’esperienza primordiale alla quale la ragione e la coscienza non possono più accedere direttamente.
Nella mitologia greca, Fobos, figlio di Marte, dio della guerra, e di Afrodite, dea della bellezza, era il dio della paura. Fratello di Deimos, il terrore. Ricordare l’album di famiglia non è puro esercizio retorico: la genealogia rimanda alla natura della passione, alle sue diverse componenti. Fobos e Deimos accompagnavano Marte alla guerra, erano Dei “offensivi”, strumenti di aggressione. Giacché il terrore paralizzava gli avversari, la paura li faceva fuggire. I latini tradussero Fobos in Fuga, abbandono del terreno della lotta. Attribuire un valore positivo, conservativo, alla paura è una operazione poco corretta. Una cosa sono l’ansia, l’allarme, la tensione. Altra la paura, che va dominata, va allontanata.
Per tornare a Bodei e alla sua tesi, è evidente che la paura, per questi suoi effetti, è una passione potentissima, utilissima per chi fosse in grado di utilizzarla al servizio di un disegno di potere.
3 L’uso sociale della paura.
La paura della morte è sicuramente la passione più radicata ed antica. Da sempre il potere e i potenti hanno usato questa paura; si è giunti fino ad inventare complessi apparati utili alla gestione della paura di massa, dal momento in cui si è ipotizzato una vita successiva e postescatologica, una vita dopo la morte fatta di felicità, per chi si attiene a certi comportamenti, e di tormenti, per chi da quei retti comportamenti si discosta. L’invenzione del purgatorio, prima, e dell’articolato sistema delle penitenze e delle indulgenze, poi, hanno completato nei secoli la strumentazione per la gestione manageriale della paura a fini di potere. Ma nell’epoca moderna e contemporanea, questa stessa gestione e queste tecniche si sono raffinate. Si è inabissato l’intento terreno e politico di queste tecniche, nascondendolo al riparo di un nuovo apparato ideologico totalizzante che si è venuto costruendo sulla scia di alcune grandi intuizioni proprie dell’Illuminismo e della sua ideologia. Nel tempo, mentre il discorso pubblico e la “filosofia” prevalente osannavano e insistevano sul rischiaramento prodotto dalla scienza, come un grande sommovimento volto a distruggere ogni altra forma di conoscenza bollata come superstizione, di fatto si insediavano e si rafforzavano una serie di pilastri su cui si è andata fondando una nuova tecnologia nell’uso politico delle passioni, ed in particolare della paura.
4 Baumann
“Noi, uomini e donne che abitiamo la parte sviluppata del mondo (la più ricca, la più modernizzata), siamo oggettivamente le persone più al sicuro nella storia dell’umanità”. Lo siamo contro le forze della natura, contro la debolezza congenita del nostro corpo, contro le aggressioni esterne. Eppure proprio noi che godiamo di sicurezza e comfort senza precedenti, viviamo in uno stato di costante allarme.” Secondo Baumann noi siamo nel mondo quelli che più di tutti soffrono la paura, pur essendo noi le persone più al sicuro nella storia dell’umanità. Indagare le ragioni di questa apparente contraddizione, come già Bauman fa nel testo da cui è tratta questa citazione, sarebbe sicuramente interessante, forse necessario per chiunque voglia studiare la complessa psicologia sociale del nostro tempo.
Nella nostra storia recente, dopo quella guerra mondiale che ha costituito uno spartiacque tra due epoche, fino al punto che in Europa ancora ci consideriamo “nel dopoguerra”, primo esempio di uso politico della paura fu la minaccia della guerra nucleare. Guerra fredda, divisione del mondo in blocchi contrapposti, turbolenze nel terzo mondo, in realtà furono epifenomeni rispetto al primo spregiudicato uso della paura come “potere frenante”, katekhon per dirla con Cacciari.
Nel suo “Il disagio della civiltà” Freud si era avvicinato alla “scoperta” dell’origine delle moderna nevrosi della società, ma forse la diagnosi più elaborata, raffinata e convincente si trova negli scritti di Franco Fornari, docente che ho avuto la fortuna di avere come maestro ai tempi dell’Università. Fornari si è occupato ed ha analizzato soprattutto il tema della guerra e della guerra atomica. Il terrore della guerra è visto come risultato del meccanismo di elaborazione paranoica del lutto. In “Thanatos e la guerra assoluta”, nel 1958, Fornari aveva formulato l’ipotesi che il lutto impossibile sia quello relativo alla propria morte, immanente alla vita, di cui abita ogni istante. Il pensiero di cominciare a morire nel momento stesso in cui si nasce è infatti insopportabile e per questo percepiamo il nostro esistere come se fossimo solo vivi e ci rappresentiamo la morte come un fatto totalmente esterno a noi. Sentiamo la vita come il bene e la morte come il male che dobbiamo espellere da noi per salvare la vita in ogni modo e a ogni costo, anche cercando un colpevole da uccidere, un nemico da sconfiggere e annientare. Se questa pulsione è un tratto oggettivamente presente nella nostra civiltà, dove comincia l’uso politico di questa “debolezza”, di questo tallone di Achille dell’uomo contemporaneo? Se la elaborazione paranoica del lutto è un meccanismo di difesa necessario ed endemicamente radicato nelle nostre coscienze, possiamo salvarci dall’angoscia e dalla colpa usando la scissione: la scissione tra bene e male. Elaborare un comune sentire per cui tutto il bene e tutta la vita in sé e nel proprio oggetto d’amore e tutto il male e la morte in un nemico esterno. E’ questo il meccanismo che, radicato nel nostro profondo, si è adattato alla evoluzione della nostra società e ai diversi modelli di potere che si sono via via affermati,
La guerra atomica, secondo gli schemi del pensiero dominante di quell’epoca, era nelle intenzioni del nemico, dunque affermare il nostro diritto di vivere significava armarsi per difendersi da quel nemico. Fino a ipotizzare la follia delle guerre stellari e dello scudo spaziale, a occidente. Dell’oriente ne sappiamo meno.
Con il superamento dei blocchi, con l’affermarsi del sistema mercatista globale, la paura della guerra atomica ha ceduto il passo, sostituita di volta in volta da entità differenti, ma sempre inquadrabili nel modulo interpretativo proposto in questi ragionamenti e dagli autori che cito.
Il ruolo di nemico esterno prevalente è stato via via assegnato ai terroristi, ovviamente non identificati in soggetti specifici, il che avrebbe circoscritto l’identità del nemico e ridotto l’effetto paralizzante della paura. Così si è sostenuto come verità la identificazione tra terrorismo e islam, in uno scontro apocalittico tra occidente civile e islam barbaro. Alla immigrazione e agli immigrati è toccato assolvere al ruolo di nemici, sorta di capri espiatori per i bisogni pseudoterapeutici della nostra nevrosi, ma in un disegno politico che attraverso questa identificazione ha consentito di consolidare il potere dei nuovi soggetti che hanno conquistato il governo mondiale dell’economia, o comunque godono i maggiori benefici della globalizzazione.
5 Insidia proteiforme
Non sono in grado di ipotizzare quali siano le specifiche esigenze di potere alla base del trasferimento della identificazione del nemico da un soggetto esterno ad uno di natura e collocazione diversa. Di sicuro a identificare il nemico con un soggetto “esterno” ci ha provato un politico disastroso come Trump, che ha tentato di convincere il mondo occidentale su una responsabilità cinese. Ma in questa nuova fase, il soggetto “nemico” ragione di ogni male non si è più identificato con l’esterno, con un barbaro di altre civiltà e di altri territori, ma si è presto andati a identificare il nemico in qualche cosa di interno, un nemico interno che dobbiamo avere la forza e la capacità di estromettere. Ripetendo modelli già presenti nei sommovimenti esistenziali del decimo secolo, quando si pensava che la prossima fine del mondo sarebbe stata la conseguenza, il castigo divino per i peccati della umanità, il contagio viene ascritto ai nostri comportamenti sbagliati; la ripresa del contagio poi, dopo una pausa abbastanza lunga, è interpretata come responsabilità dei comportamenti di coloro che non hanno voluto ascoltare il primo avviso. Il nemico siamo noi, il nemico è tra noi.
C’è dunque, rispetto ai primi esempi di epidemie di paura del XX secolo, un cambiamento sostanziale: si ripete il modello della attribuzione del male ad un nemico, ma la identificazione del nemico sfuma, è rimandata a dinamiche gestite per lo piu dal sistema dei massmedia, ormai dominato dai social e dunque da una soggettività diffusa e senza testa, pilotata da centrali che nessuno controlla né è in grado di controllare.
E’ solo per inciso, ma per timore di essere fraintesi, che ripeto che non si mette in discussione l’esistenza vera dei pericoli (prima la catastrofe atomica, poi la immigrazione incontrollata, le intolleranze e i fondamentalismi, infine le pandemie, ultima e micidiale quella di COVID19). Nè voglio incoraggiare teorie complottistiche che ipotizzano l’esistenza di soggetti capaci di ideare e gestire con padronanze offensive planetarie di questo genere. Rimanendo a quello che la scienza ha accertato, mi limito a sostenere che la paura è una passione patologica, definizione che pare ridondante poiché pathos passione e patologia sono quasi sinonimi. La paura dei moderni è la risposta patologica ad un disagio profondo.
La gestione della paura invece è una pratica di potere, una pratica che in qualche modo si è fatta sistematica, si è insediata come modalità ordinaria nella politica mondiale, in un processo che si è accelerato dopo la fine del dualismo mondiale e il superamento dei blocchi. A livello delle coscienze dei popoli, quello che in quegli anni, ed in questi che viviamo, è accaduto e sta accadendo è che è finita un’epoca millenaria in cui prevaleva l’eschaton, una visione finalistica di liberazione, che le grandi religioni affidavano alla Parusia, alla seconda venuta e poi al dopo giudizio universale; e le filosofie post-illuministiche e del novecento affidavano al mondo liberato, con la fine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo e l’avvento del comunismo, oppure la lotta contro questa visione e queste politiche in nome della difesa mondiale della libertà e in particolare della libertà al modo occidentale. Con il naufragare di queste religioni si è verificato un tramonto della luminosità del futuro; a questa eclisse della speranza millenaria, si è cercato di sopperire incoraggiando il sogno di una scienza e di una tecnica, la scienza degli scientisti, che sarebbero state capaci di assicurarci una nuova epoca di progresso e ricchezza per tutti, liberandoci dal male e dalle superstizioni. Purtroppo è stata la Terra ad avvisare tutti che si trattava di una grande bugia.
Nel modo come si sta cercando di fronteggiare la pandemia ci sono elementi inquietanti, che non fanno volgere all’ottimismo la nostra riflessione. Non ci sono, attivi, soggetti e fonti che lavorino per elaborare la paura, per ridurla, per contenerla, per alimentare speranza. Ci ha provato Francesco, nella sua straordinarie spettacolare e sublime uscita di preghiera nella Piazza San Pietro, e il suo richiamo alla barca, al temporale, alla necessità di salvarsi insieme. Ma il discorso e le pratiche prevalenti tendono a ignorare la constatazione elementare che la seconda fase della pandemia si è manifestata con forze e con modalità soverchianti… inutile dare la colpa agli “incoscienti” che durante l’estate se la sono goduta stando vicini in spiaggia. Questa spiegazione è il tentativo di ricondurre la questione a un modello razionale, là dove invece questa capacità non l’abbiamo, non ce l’ha la scienza, non ce l’hanno i comitati tecnico scientifici, non ce l’ha la politica. Ci sono eventi che non sono immediatamente governabili (comprensibili, prevedibili, gestibili) con i modelli razionali che abbiamo a disposizione. Questi eventi, nella nuova dimensione globale della vita nel mondo, sono destinati ad intensificarsi, a cominciare dalle pandemie. Questa è una verità che qualunque persona dotata di buon senso dovrebbe essere disposta ad accettare. Purtroppo in questa considerazione è contenuto un assunto che il fondamentalismo su cui si basa l’ideologia del nostro tempo non può accettare. Una contraddizione tanto evidente tra buon senso, e dunque sentire comune, e pensiero dominante, diventa essa stessa una fonte generatrice di inquietudine e paura.
Che fare ora
Un mondo dominato dalla paura rinuncia presto alla sovranità. I suoi meccanismi politici sono sempre più calibrati sulla emergenza; si accettano limitazioni della libertà in misura crescente, si accetta di ridurre gli spazi di socialità, si impara progressivamente a vedere gli altri come un problema, a identificare nei loro comportamenti le ragioni del nostro disagio. Dunque la paura, strumento utile per il controllo delle pulsioni delle masse, si costituisce come un problema per la libertà e per la democrazia. La lotta per intraprendere un percorso che dia nuovo vigore alla ragionevolezza e quindi alla “padronanza” dei destini delle persone, è anche una lotta contro la paura. Non sarà una lotta facile, perché sarebbe illusorio condurla contando sulla strumentazione che fa affidamento supremo e spesso esclusivo alla ragione contingente, là dove invece occorrerebbe un duro e lungo lavoro per rinunciare al modello di liberazione preso pari pari da quella che Recalcati definisce la “fantasia scissionista”, con una fase due che segue la fase uno, con la luce che viene dopo le tenebre. “Non dobbiamo nasconderci che siamo di fronte ad una tendenza profonda della vita umana: negare la morte, il male, il negativo nel nome dell’illusione di una vita senza ferite e senza traumi. Saper sostare di fronte al negativo, saper stare dove la paura è più grande significa imparare a convivere con lo straniero. È il compito di una vita che sa essere all’altezza di quello che le accade, che, come ricordava Deleuze, è la sola forma possibile per un’etica in grado di tenere conto del reale.” E’ ancora Recalcati che scrive, e il suo richiamo è forte e tremendo. La nostra paura ci fa dissociare dal presente, in nome di un poi che è una promessa inconsistente.
In molte regioni del mondo in antico si soleva mettere delle foglie di acero nei nidi degli uccelli per preservare le uova e tenere lontani i pipistrelli, ritenuti malefici e devastanti
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