Di Marcello Buiatti, di cui si trova molto oggi sui social, spero anche nella stampa anche domani, vorrei qui ricordare quanto lui stesso ebbe a raccontarmi, qualche anno fa. Marcello era nato a Firenze, da madre ebrea polacca e padre italiano, nel 1938, l’anno stesso delle leggi razziali. Aveva quindi sei anni quando, sotto occupazione nazista la città di Firenze, dovette passare il suo tempo, rinchiuso dentro una casa in via Faenza, senza nemmeno potersi affacciare alle finestre. Non era facile spiegare ad un bambino il perché di tutto, spiegare l’inesplicabile. Ricordo che quando me lo raccontava, con apparente distacco ma senza attenuazioni, mi venne fatto di pensare che in via Faenza era la sede del sindacato all’interno della quale venne proditoriamente ucciso dai fascisti, nel febbraio 1921, Spartaco Lavagnini, alla sua scrivania di lavoro.
Il ragazzino rinchiuso era diventato uno dei maggiori genetisti del ‘900, come si legge nel ricordo dell’ANPI di Pisa. Il ragazzino sfuggito con la sua famiglia alla Shoah era diventato poi uno degli scienziati che avevano promosso il Manifesto degli scienziati contro il razzismo nel 2008.
Il legame tra vita, scienza e politica, in Marcello Buiatti, era fortissimo. Ecco perché la associazione tra la casa di Marcello a Firenze e l’assassinio di Spartaco Lavagnini non era poi così fortuita e mi è rimasta così in mente.
Marcello Buiatti era così imprescindibilmente portatore di due delle più grandi forze di trasformazione della società, la scienza e la politica. Diciamo meglio: della buona scienza e della buona politica. Cose oggi per la verità piuttosto rare, e soprattutto sotto costante, sistematico attacco. Dobbiamo salutare Marcello come un modello importante di impegno e di legame tra le due cose. Proprio nel momento in cui questo legame, noi sotto scacco di un virus malevolo, e insidiati dalle forze della disuguaglianza e della oppressione, abbiamo grande, enorme bisogno.
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