Al tempo del coronavirus: COVIDA-2020 di Lorenzo Leoni

 

Dopo svariate settimane, di colpo un giorno mi iniziai a chiedere quando tutto questo sarebbe finito. In particolare mi chiedevo quando l’inquilino del terzo piano che abita nel palazzo accanto avrebbe deciso di smetterla con il suo palinsesto radiofonico. Alle diciotto in punto amplificava per tutto l’isolato l’Inno di Mameli, seguito ogni giorno dal Va’ pensiero di Verdi. Nonostante la mezza stagione, che era incredibilmente riapparsa, me lo immaginavo in canottiera e mutande, seduto su una consunta poltrona mentre, ascoltando l’inno nazionale con la mano sul cuore, guardava la conferenza quotidiana della Protezione civile sullo sviluppo della pandemia. Quando finiva la sua esibizione la conferenza si era già inoltrata in ulteriori dettagli e lui se ne era già persa una parte importante, ma tant’è: non era mai stato bravo a scuola, né in matematica né in italiano. In italiano era stato carente soprattutto per quanto riguarda la comprensione del testo e dell’ascolto.

La prima volta lasciai passare e capii, vista la situazione emergenziale. Anzi, ne fui quasi orgoglioso. Da vero patriota, mi immaginai i giorni gloriosi del Risorgimento in cui o si fa l’Italia o si muore! O almeno volli che fosse così, tralasciando, nel pensier mio, il tarlo che l’inno d’Italia potesse richiamare a coloro che lo trasmettevano un ben diverso periodo storico. Gli applausi del vicinato, almeno nei primissimi giorni, mi fecero sentire davvero fiero di far parte di una comunità stretta e unita di fronte al periglio. Addirittura pensai ad altri giorni gloriosi: quelli della Resistenza. Poi iniziai a riflettere sull’abbinamento dei due spartiti e ciò mi indusse a pensare che l’accostamento poteva essere un ammiccamento a una specie di par condicio: l’inno nazionale e l’inno che un partito, che era stato indipendentista e che non lo era più, riconosceva in maniera fraudolenta come proprio.

Messi da parte questi tarli sopravvenne, senza lasciarmi scampo, il pallino che mi rode ancora oggi: quando potrò passare indenne quei quindici minuti dopo le sei del pomeriggio senza che il mio cuore ardisca per le sorti della patria. A oggi non ho ancora una risposta. E osservo dalla finestra del mio piccolo appartamento le strade vuote e le foglie portate via dal vento, i sacchi della raccolta porta a porta lasciati solitari, per alcuni giorni, negli spiazzi antistanti i condomìni, dai lavoratori dell’impresa dei rifiuti che non erano stati dotati dei dispositivi di sicurezza adeguati, il corridore stanco e cauto sulle misure di distanziamento sociale che si prende una secchiata di piscio, chi lo sa se infetto, da un esageratamente zelante inquilino del quarto piano, l’anziano pensionato di ritorno dall’edicola che viene intimato di tornarsene a casa in fretta senza sostare immotivatamente per la via. Vedo i parchi soli e i bambini, con gli occhi arrossati e stanchi dalle ore passate sui computer per la didattica a distanza, bramarli come fino ad allora avevano bramato solo il Natale con annessi i suoi regali. Divento strabico a intercettare gli spostamenti dei cani al guinzaglio e, sconsolato, rivolgo lo sguardo ai miei adorati gatti che, sfortunatamente, bisogno di me non hanno. Mi inorgoglisco a scovare l’assessore che controlla all’uscita del supermercato gli scontrini dei cittadini-consumatori per cautelarsi che abbiano comprato tutto ciò che necessita loro per l’intera settimana. Mi si riempe il cuore a osservare il vigile, con la passione degli aeroplanini, che pilota, felice, il drone come un bambino cui il padre ha costruito il suo primo aquilone.

Tutto scorre, sempre uguale, giorno dopo giorno, fino a quello in cui non noto qualcosa di strano nei movimenti dei pochi passanti giustificati nell’uscita dalle loro necessità. Un cambiamento d’andatura, dapprima impercettibile, ma che si fa marcato con lo scorrere del tempo. I primi giorni si nota nella parte superiore del corpo: si manifesta con un lieve movimento del braccio, che si alza in maniera più rigida rispetto alla coordinazione abituale di un uomo che cammina. Nei giorni successivi il braccio dei passanti comincia a irrigidirsi, si fa teso e tende sempre più verso l’alto. Allora, l’avanbraccio supera la spalla, il palmo della mano si apre e le dita si flettono in una posizione plastica. La postura nel passo non cambia da un momento all’altro, repentinamente. Un poco alla volta si trasforma senza che se ne accorgano. A prima vista può sembrare un saluto romano, ma non ne sono così certo. Da qualche anno la mia vista si è offuscata e, dopo aver perso gli occhiali con i quali cercavo di vedere la realtà, non riesco a distinguere bene le pose dei passanti dalla finestra del mio piccolo appartamento. Certo, potrei scendere in strada e verificare di persona, tenendo in considerazione le misure di sicurezza, ma chi lo sa se posso scendere dal mio pianerottolo. Di questo l’avvocato del quotidiano che leggo ogni mattina non parla nella sua rubrica e nessuno ancora mi sa dare con certezza una risposta.

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