QUANDO LA STORIA DICE: RIVOLUZIONE NON VIOLENTA! di Antonino Drago

Storia e statistica nella discussione su violenza e nonviolenza. L’intervento di Antonino Drago.

Prima del 1989 i non violenti venivano ridicolizzati perché, secondo i
benpensanti, volevano fermare le bombe atomiche con le mani. Di fatto, i 200 milioni di
morti che tutti gli Stati, ad Est e ad Ovest, avevano programmato per risolvere un
possibile conflitto mondiale, sono stati evitati proprio dalla difesa popolare non violenta
della gente. Nei primi anni ’80 sono state le persone che a milioni hanno manifestato
scendendo nelle strade di ogni capitale europea contrapponendo una difesa non
armata a quella catastrofica delle armi nucleari dei Paesi “progrediti”, capaci di
distruggere popoli interi. Poi in URSS è comparso Gorbaciov che, proprio per
l’appoggio politico avuto dai popoli occidentali – mentre i leaders occidentali non gli
credevano, – ha potuto cambiare rotta verso il disarmo atomico e progettare una
coesistenza pacifica da condividere nella casa comune dagli Urali ai Pirenei. Infine le
genti dell’Est, oppresse da dittature sclerotizzate, “hanno prodotto un cambiamento
epocale nella vita dei popoli, dei paesi e degli Stati”, come di recente ha detto Papa
Francesco, senza subire grandi perdite.
Le armi della ragione versus la ragione delle armi
La scelta dei popoli che si sono liberati, è stata a favore della non violenza, di
quella concezione della politica che fin allora era stata ridicolizzata. I leaders mondiali
e i capi militari, per coprire la loro clamorosa sconfitta e trovare una ragione a ciò che
era avvenuto, hanno allora inventato la storia de “il crollo del muro di Berlino”. Un
giudizio storico più adatto ad un pugile groggy che, stordito, non sa più chi è stato
l’autore, quali azioni hanno causato l’evento, con che metodo è stato ottenuto il
risultato. Questa incoscienza storica è giustificata da un mondo universitario che
ancora non riconosce la non violenza come teoria politica, e da una cultura liceale che
non sa dire parole sensate sulla prima liberazione di un popolo – il 10% dell’umanità di
allora – avvenuta senza armi: quella indiana, guidata da Gandhi. Passato il 1989,
l’ultima superpotenza rimasta, gli USA, si è buttata in una guerra da 900.000 uomini
contro l’Irak al fine di ristabilire la ragione delle armi, con ciò causando un disastro
politico in tutto il mondo arabo, e che ora cercano di fronteggiare combattendo una
ulteriore guerra, che è mondiale e senza fine: quella al terrorismo.
Invece i popoli, con le “armi della ragione”, hanno continuato a compiere
rivoluzioni per abbattere le dittature dei loro Paesi. Da pochi anni i Paesi governati da
un regime democratico, sono in maggioranza. Qui non ci si riferisce ai progetti
ottocenteschi di rivoluzioni sanguinose, ma a tutte le rivoluzioni avvenute nel mondo
tra il 1900 ed il 2006. Sono state elencate dettagliatamente e suddivise in “violente” e
“non violente” da due giovani ricercatrici californiane, E. Chenoweth e M. Stephen,
assistite dai migliori studiosi della materia. La loro indagine ha confermato, tra l’altro, i
risultati di una precedente ricerca curata da P. Ackerman e A. Karatnicky (How
Freedom Won) sulle rivoluzioni avvenute tra il 1975 ed il 2002. Non solo: il loro studio
è andato ben oltre i risultati a cui era giunto Gene Sharp in Politica dell’azione non
violenta. Per E. Chenoweth e M. Stephen le rivoluzioni avvenute in più di un secolo,
sono risultate 323. Di queste, le non violente sono state oltre un centinaio: poche
all’inizio del secolo XX, ma con un incremento significativo verso la sua fine (vedi Tab.
1).

Tab. 1  Deago 1

La nonviolenza funziona

“La non violenza è bella fino a che funziona”, ebbe a dire negli anni ’60 Malcom
X che, in alternativa a M.L. King, scelse la lotta violenta per ottenere il riconoscimento
dei diritti degli afroamericani. Questo studio dimostra invece che per il cambiamento
sociale, la non violenza funziona molto meglio che la violenza. Le campagne non
violente sono state “più di due volte efficaci di quelle violente nell’ottenere il loro
obiettivi”: tre su quattro contro una su quattro. Infatti, nell’ultimo secolo, i movimenti
non violenti sono stati molto più efficaci nel mobilitare la popolazione, resistere alle
repressioni schiaccianti dei regimi dittatoriali, creare nuove iniziative di lotta,
sconfiggere i regimi repressivi. Con le loro iniziative (manifestazioni di piazza, non
cooperazione, boicottaggi) le rivoluzioni non violente hanno coinvolto maggiormente le
popolazioni rispetto alle mobilitazioni violente caratterizzate da atti distruttivi decisi da
pochissimi dirigenti rispetto ai sostenitori della lotta, secondo ideologie più o meno
aggiornate (marx-leninismo, insurrezione-guerriglia maoista). La forza delle rivoluzioni
non violente sta nella loro capacità di dialogo, di persuasione, di testimonianza, tali da
spaccare le forze repressive. Lo Scià, Marcos, Honecker, ecc. sono usciti di scena
perché non potevano più comandare il loro esercito.
Le pagine dimenticate della Storia
Tutto ciò è dimostrato mediante analisi, statistiche, ricerche di tipo sociologico,
oltre che lo studio di quattro casi storici: la rivoluzione iraniana (1977-79), la prima
Intifada palestinese (1987-92), la rivoluzione filippina del People power (1983-86) e la
fallita insurrezione a Burma (988-1989). Perché anche le rivoluzioni non violente,
ovviamente, possono fallire, ma in media una sola volta su quattro. Il risultato è
straordinario perché cambia radicalmente il pensiero comune, solidificato da un secolo
e mezzo di progettazione (marxista) della rivoluzione sociale mondiale, che ha
impegnato milioni di persone a lottare per la enorme speranza di un mondo
interamente nuovo. I non violenti, accusati di “non volersi sporcare le mani” con le
armi, per quietismo o per incapacità, lo avevano sempre detto: ribellarsi è giusto, ma il
farlo in maniera non violenta è meglio. Ma si continua a ripetere: “La resistenza non
violenta non avrebbe potuto fare nulla contro Hitler o Stalin.” Invece la superiorità

delle resistenze non violente riguarda tutti i casi possibili di lotta dura, anche quelli
estremi, come ad esempio i genocidi. Il caso più importante – parzialmente vittorioso –
durante un periodo estremamente difficile per i resistenti, è stato quello che ha visto la
mobilitazione di tutta la popolazione danese alla deportazione degli ebrei: tutti si
misero sul petto la stella di David e ciò salvò gli ebrei danesi dal genocidio. Ma anche
gli italiani sono stati capaci di episodi simili. Per opporsi alla guerra e far cadere il
fascismo, Capitini propose un grande movimento di non collaborazione civile che in
Italia, però, non si realizzò. Ma poi lo attuarono nei fatti i 600.000 internati militari in
Germania, cioè le truppe italiane catturate dopo l’8 settembre 1943 su tutti i fronti di
guerra. Invitati a tornare in Italia come soldati della Repubblica di Salò di Mussolini,
essi scelsero di restare nei lager, sfidando la morte per fame e stenti. Furono essi la
componente moralmente più importante della Resistenza italiana. Inoltre, nel luglio
1944, a Carrara, gli occupanti nazisti non riuscendo a controllare la popolazione data
la cospicua presenza di partigiani, decisero di deportare i 95.000 abitanti in Emilia. Ma
le donne, con una manifestazione spontanea di tre giorni, costrinsero le autorità
militari a far ritirare l’ordine.
La nonviolenza come forza innovatrice
In effetti, già cinquant’anni fa Lanza del Vasto aveva detto: “Quando parliamo di
non violenza come di una scoperta di questo secolo, conviene precisare che non si
tratta della rivelazione di un nuovo valore spirituale o di una rivelazione religiosa
[perché è già inclusa dalle Beatitudini], ma dell’ingresso, nella storia dei popoli, di una
forza rivoluzionaria e innovatrice.” Negli ultimi anni si è detto che le rivoluzioni non
violente si prestano al gioco della destra di rovesciare senza spargimento di sangue i
regimi di sinistra (come ad es. sembra sia avvenuto in Serbia e in altri Paesi dell’Est).
In effetti non si dice che fino a poco fa la sinistra era ben pronta ad utilizzare quelle
che chiamava jacqueries o “rivolte morali” (come quella del 1905 in Russia) per
finalizzarle alla presa del potere. Ebbene, oggi anche la destra si è accorta della
efficacia di questo tipo di rivoluzione e cerca di sfruttarla. Ma questo fatto non prova
che le rivoluzioni non violente sono di destra; prova semplicemente che i loro leaders
ancora non hanno maturato una esperienza politica tale da saper gestire anche il doporivoluzione.
Anche perché la non violenza vuole costruire uno Stato diverso dal solito –
di tipo federativo e con una amministrazione minima, – ma che è ancora troppo distante
da quello attuale per essere realizzato subito. Questo è stato, ad esempio, il problema
dei Verdi tedeschi dopo il 1989. Intanto i cattolici dovrebbero però riflettere sulla
novità. Il Concilio Vaticano II ha usato una frase appena benevola verso la non violenza
(Gaudium et Spes n. 80) senza dare indicazioni sulla politica da seguire. Però a molti è
sembrato che fosse giunto il tempo di darsi una nuova base politica facendo “la scelta
preferenziale dei poveri”. Tale opzione, come conseguenza apparentemente logica,
accoglieva l’analisi sociale di una sinistra rappresentativa della classe subordinata, e
quindi il progetto di una rivoluzione armata necessaria a ribaltare i regimi politici di
destra, specie quelli dittatoriali del Sud America, anche se con grandi costi sociali. Ma
le ricerche a cui ho accennato precedentemente, hanno dimostrato, analizzando i fatti
accaduti, come questa prospettiva sia stata di minore efficacia rispetto al metodo non
violento: nel Sud America, nel periodo 1900-2006, le rivoluzioni non violente sono state
efficaci per l’83% dei casi, mentre quelle violente lo sono state solo per il 24% (vedi
Tab. 2).

Tab. 2 drago2

C’è da concludere che i popoli, specie quelli dell’America Latina, hanno saputo
ricondurre le rivoluzioni ad azioni etiche.

Conoscere per capire ed agire
Tutto ciò dimostra che la storia ha prodotto sulla scena mondiale, in sequenza, la
nascita di nuovi attori politici, che possono essere espressi nei seguenti modelli di
sviluppo (MDS): il liberale MDS Blu nei Paesi occidentali (USA, Gran Bretagna,
Francia, Italia ecc.), nato con le rivoluzioni del 1688 in Inghilterra, del 1787 nel Nord
America, del 1789 in Francia; il socialista MDS Rosso nell’URSS, Cina, Cuba ecc., nato
con la rivoluzione russa nel 1917; il gandhiano MDS Verde, che ha sconvolto la politica
mondiale con le rivoluzioni non violente del 1989, per arrivare al più recente MDS
Giallo, comparso con le “primavere arabe” del 2011, tradite dagli Stati “democratici”
nel momento in cui hanno negato loro gli aiuti economici che il G-8 del 2011 aveva
promesso loro solennemente. Di fronte all’aut aut posto dalla sunnita Arabia Saudita,
che temeva l’espandersi degli sciiti dell’Iran, gli Stati Uniti, e quindi l’Unione Europea,
hanno preferito il petrolio di quel loro alleato arabo al prezzo di restaurare le
“democra-ture” sui popoli che avevano iniziato un cambiamento radicale (ad es. in
Egitto), e scatenare in Siria una feroce guerra allo scoppo di abbattere uno Stato sciita
con qualsiasi mezzo, anche con i gruppi terroristi e dell’ISIS. Secondo le ricerche più
sopra ricordate, le rivoluzioni non violente impiegano di norma sette anni per ottenere
l’obiettivo; allora nostro dovere è quello di sostenere i popoli, dando tempo al tempo
affinché emergano nel mondo tutti i MDS. In particolare, affinché i MDS Verde e Giallo
riescano a realizzare nuovi tipi di Stato, in modo tale che nel mondo si stabilisca un
pluralismo politico di MDS, caratteristico di una governabilità non violenta. Intanto noi
abbiamo riacquistato una coscienza della storia contemporanea, la quale, come
dimostrano le tante rivoluzioni nel mondo, è favorevole alla non violenza .

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