La discussione sulla “nonviolenza” (vedi Mitezza e nonviolenza attiva di Moreno Biagioni) ha avuto origine da questo articolo di Angelo Baracca, uscito su Contropiano il 2.12.2019. Ringraziamo l’autore e la rivista per la disponibilità. Pubblicheremo altri interventi in questo dibattito.
Una critica alla “nonviolenza”: da una persona che rifugge la violenza
Parto da una dichiarazione molto esplicita: io non sono, e non sono mai stato, violento. Tuttavia mi sento lontanissimo da quella che viene denotata “Nonviolenza” (o anche “non violenza”, ma lo scrivo unito per capirci).
Oggi sembra che non ci si possa esprimere su nulla, sui movimenti, sulle lotte sociali e politiche, sulle forme di lotta, se non si antepone la premessa quasi rituale “Ovviamente con metodi non violenti”, o unendo “Pace e nonviolenza”. Il mio parere, e la mia scelta, è che è più che sufficiente “non essere violenti”! Perché ci si dovrebbe dichiarare “nonviolenti” a priori, astrattamente, indipendentemente dalle situazioni concrete di fronte alle quali potrebbe porci, o ci pone la vita, sempre diverse e soprattutto imprevedibili?
A mio parere questa “nonviolenza” si configura come una contrapposizione ideologica a qualcosa che è tutt’altro che definito: si costruisce un’immagine astratta di “violenza” e ci si contrappone a priori a un’idea che ci si è fatta in testa, a prescindere dalle situazioni reali.
Fra l’altro ho seri dubbi che tutti coloro che adottano questa posizione intendano la medesima cosa: dalla mia esperienza personale ci sono fra l’altro molti tipi di “nonviolenza”, anche piuttosto diversi fra loro, nelle premesse e negli atteggiamenti concreti. E ho conosciuto, francamente, “nonviolenti” che esercitano una, penso inconsapevole, aggressività nelle parole e negli atteggiamenti personali: se freniamo con la volontà atti o reazioni di aggressività che ci verrebbero spontanei, da qualche parte o in qualche forma questa violenza deve necessariamente sfogarsi, uscire. E vorrei aggiungere che la violenza verbale può ferire anche più di quella fisica, denota comunque forme di intolleranza verso gli altri e le loro opinioni.
Nella galassia dei gruppi pacifisti, fra i quali ci sono alcuni dei “nonviolenti” più convinti e integrali, dominano divisioni profonde (le differenze doverebbero essere un ricchezza), chiusure nette, vere rivalità, rifiuti a confrontarsi e a collaborare con gli altri: a me sembra inconcepibile che il rifiuto ad ascoltare, l’autoreferenzialità, la sordità e l’indifferenza verso gli altri non venga colta come una forma di vera “violenza”, ancorché non fisica. La mia valutazione personale è che dietro questi atteggiamenti si celino problemi personali non risolti (cosa che non è certo una colpa, chi non ne soffre?), forme inconsce di autoaffermazione, sensi di inferiorità sublimati in tali atteggiamenti.
Personalmente in mezzo secolo di impegno politico e militante ho sempre rifiutato la “nonviolenza” intesa in questo modo. Anche se, nella realtà, ho collaborato e collaboro in maniera molto proficua con organizzazioni, formazioni o soggetti esplicitamente “nonviolenti”: quelli almeno che hanno un atteggiamento “laico”, accettano, anche se magari non condividono, le mie posizioni e le mie analisi (ovviamente ricambiati).
D’altra parte mi guardo bene dal disconoscere i meriti di molti soggetti nonviolenti, i quali si sono esposti a misure repressive a volte dure. Ma la repressione del sistema non guarda in faccia a nessuno, e non ha risparmiato certo tanti che hanno invece adottato metodi diversi. Insomma, il merito non è esclusivo dei “nonviolenti”, così come non lo è assolutamente, a mio parere, l’efficacia o meno delle azioni.
Mi si può obiettare: perché essere CONTRO la “nonviolenza”? (Sempre precisando che rispetto comunque tutte le posizioni)
Non è sufficiente non condividere le posizioni “nonviolente”?
Il fatto è che mi convinco sempre più che se e quando sarà possibile fare una valutazione storica approfondita delle lotte di questo mezzo secolo, la “nonviolenza” verrà valutata come una auto-costrizione delle forme di lotta, e dei loro esiti, una scelta avulsa appunto dalla considerazione delle situazioni concrete. E qui cercherò di affrontare il problema.
L’affronterò da due fronti diversi: il primo esaminando alcuni esempi specifici, concreti, storici – non certo i soli, e forse neanche i più adatti – per cercare di capirci; il secondo cercando di proporre un’interpretazione, per lo meno preliminare, dei motivi per i quali questa premessa di “nonviolenza” è concepita quasi come un obbligo morale, diventata quasi necessaria, un bisogno.
Inizio dal primo punto. Un primo aspetto lo liquido rapidamente perché mi è già accaduto in passato di discuterlo con i soggetti nonviolenti con i quali mi rapporto: questi infatti non negano affatto che certe circostanze storiche abbiano imposto di “imbracciare il fucile, ed anche di uccidere”. L’esempio tipico è la Resistenza, non solo italiana, contro il nazismo, della quale è difficile negare i meriti, e la necessità.
Il riferimento “classico” dei “nonviolenti” riguarda le forme di Gandhi di opposizione al dominio coloniale britannico: ovviamente riconosco a Gandhi il merito di queste lotte, ma personalmente dissento da chi vorrebbe decontestualizzarle e applicare l’approccio gandhiano a qualsiasi situazione. In tante situazioni dubito fortemente che sarebbe la più idonea ed efficace, ed addirittura che sarebbe utilizzabile.
Personalmente ho tanti esempi della necessità, ed efficacia, del ricorso a metodi violenti, di ricorso alle armi: esempi che sinceramente ammiro. Non sono un esperto delle lotte di decolonizzazione, ma credo che vi si possano trovare molti casi nei quali il ricorso a ribellioni armate è stato una necessità, e senza di esso le ribellioni sarebbero fallite o risultate inefficaci: il che non implica il contrario, cioè che tutte le rivolte armate anti-coloniali abbiano avuto un esito positivo; soprattutto nel lungo periodo, conseguendo esiti duraturi e irreversibili (ma simmetricamente cosa si potrebbe dire dell’India dopo Gandhi?).
Il punto è sempre di non assolutizzare nessun approccio, ma contestualizzarlo, tenendo conto di tutti i fattori, sempre diversi, che caratterizzavano la concreta situazione storica e sociale.
Vi sono comunque casi concreti che, senza mezzi termini, riscuotono la mia completa approvazione. Uno è la Rivoluzione Cubana, nella quale i barbudos affrontarono con i soli fucili un esercito, quello batistiano, dotato (dagli Stati Uniti) di aviazione, cannoni, mitragliatrici, carri armati.
Sono convinto che nessun’altra forma di lotta avrebbe avuto questo successo, perché gli Stati Uniti furono colti di sorpresa (come tutto il mondo) e se si fossero preparati ad altre forme di lotta le averebbero represse sul nascere con ogni mezzo: la storia di tutta l’America Latina, e i drammatici sviluppi attuali, ne sono la prova. Del resto gli Stati Uniti non si sono mai rassegnati alla perdita di Cuba, nel 1961 organizzarono l’invasione alla Baia dei Porci, hanno gravato Cuba del pesantissimo bloqueo, e attualmente stanno deliberatamente cercando di soffocare la società cubana, con il solito pretesto di “liberarla” e portare la (loro) democrazia, a costo di annientarla (ma, come dichiarò l’allora Segretario di Stato, Madeleine Albright, sulla strage perpetrata in Iraq con, e dopo, la guerra del 2003, “Ne è valsa la pena”!).
Ma c’è un argomento senz’altro più delicato, ma dirimente: ammiro senza mezzi termini il governo cubano quando, dopo il crollo del regime di Salazar in Portogallo (“rivoluzione dei garofani” che certo riconosco non violenta, appunto una situazione storica specifica), intervenne militarmente in Angola, dove i cubani – sconfiggendo in una lunga guerra, con un esercito “di colore” cubano-angolano, l’esercito di “bianchi” del Sudafrica, il più forte dell’Africa – inflissero un colpo decisivo all’immagine dell’apartheid.
Fu un atto di internazionalismo estremamente coraggioso: nel clima della Guerra Fredda né gli USA né l’URSS potevano intervenire, Cuba se lo permise scavalcando la volontà dell’URSS, sebbene fosse da 13 anni nel Blocco comunista.
Chi abbia letto il libro di Ryszard Kapucinski Ancora un Giorno (o visto il recente bel film omonimo) sa che il progetto del Sudafrica, se avesse soffocato il movimento di liberazione in Angola, era di imporre il regime di apartheid in tutta l’Africa: Nelson Mandela ha dichiarato esplicitamente a Fidel Castro la gratitudine per l’intervento militare cubano in Angola.
Insomma, un intervento armato ha contribuito a cambiare la storia di un intero continente, e forse gli equilibri mondiali.
Non mi dilungo sulla Guerra nel Vietnam, un altro caso emblematico, che si può catalogare nelle forme di resistenza a un’aggressione esterna: ma ritengo che non fu una mera resistenza a un’aggressione, ma una vera guerra di liberazione coloniale, armata, la precedente Guerra d’Indocina (1946-1954) condotta vittoriosamente dal grande generale Ho Chi Minh, dal momento che la Francia dal 1883 aveva imposto il dominio coloniale di fatto sul Vietnam e l’occupazione giapponese durante la Seconda Guerra Mondiale era stata solo una parentesi.
I meriti, militari, del generale Ho Chi Minh non sono a mio avviso per nulla inferiori a quelli di Gandhi: e non credo che la colonia francese del Vietnam si sarebbe liberata con metodi “nonviolenti”. Tutto deve essere contestualizzato.
Del resto non posso mancare di ricordare che fra i “nonviolenti” italiani vi è stato chi ha plaudito all’intervento militare in Libia del 2011! Mentre altri “nonviolenti” si indignarono e si opposero, nonché tanti altri che non si riconoscono affatto nella “nonviolenza”: il rifiuto delle armi e della violenza non è una prerogativa dei “nonviolenti”, e a volte lo è maggiormente per altri pacifisti.
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Vengo al secondo punto, per cercare di individuare, almeno in termini preliminari, la possibile origine della “nonviolenza”, per lo meno in Italia nel mezzo secolo passato, come sia diventata una premessa quasi obbligata, preliminare ad ogni proposta di azione e di movimento. Non sono un esperto per ricostruire le espressioni precedenti della non violenza, ma credo di poter dire che mai prima sia stata una necessità quasi obbligata di dichiarazione. Mi limito alla situazione che conosco e ho vissuto direttamente, l’Italia.
A mio avviso vi sono state vicende precise della nostra storia tormentata dell’ultimo mezzo secolo che hanno generato una sorta di “senso di colpa” collettivo, e indotto il bisogno di auto-giustificarsi, a priori: “Io sono nonviolento”, “metodi nonviolenti”.
I motivi che esporrò non sono certo esaustivi ma penso che abbiano un fondamento di verità.
La contestazione del ‘68, con la sua radicalità, provocò una forte repressione poliziesca, a cominciare dai famosi scontri di Valle Giulia a Roma (che comunque a mio avviso furono pienamente motivati). Ma a mio parere il potere si sentì direttamente minacciato quando l’anno seguente le lotte dell’Autunno Caldo coinvolsero in massa gli operai delle fabbriche, si saldarono con le lotte studentesche e coinvolsero ampi strati sociali.
Le posizioni e le reazioni delle forze politiche e sindacali di sinistra istituzionali furono profondamente insoddisfacenti, vennero contestate dai movimenti, e si svilupparono le varie formazioni e posizioni della cosiddetta sinistra extraparlamentare. Non a caso si verificò allora l’inasprimento della “strategia della tensione” e si intensificarono gli attentati fascisti: proprio all’inizio dell’Autunno Caldo vi fu, il 12 dicembre del 1969, la strage di Piazza Fontana (preceduta dagli attentati della primavera).
In questo clima rovente – fra la radicalità delle manifestazioni di massa, le risposte carenti della sinistra istituzionale, la frammentazione dei gruppi extraparlamentari che sostenevano la via rivoluzionaria, le trame nere, i tentativi di colpi di stato (quello del comandante Junio Valerio Borghese del 1971, nel 1974 il “golpe bianco” di Edgardo Sogno, la strage dell’Italicus e la strage di Piazza della Loggia a Brescia, ecc.) – si svilupparono (semplificando brutalmente) le forme della “lotta armata”.
Non è questa la sede per esaminare l’andamento e gli esiti della grande stagione di lotte degli anni Settanta, ma mi sembra opportuno insistere – per chi non lo avesse ben presente, e soprattutto per chi ancora non c’era – sull’estrema gravità delle tensioni, le provocazioni, le trame nere, le complicità internazionali, il rischio gravissimo per la democrazia italiana1.
Credo che sia anche importante precisare che la radicalità delle lotte aveva un’origine nelle lotte operaie nelle fabbriche2, dall’occupazione di Mirafiori, alle posizioni di Lotta Continua e di atri gruppi extraparlamentari (non si dimentichi ad esempio l’uccisione dell’agente di polizia Annarumma, il 19 novembre 1969 a Milano, in seguito a uno scontro con un gruppo estremista). Insomma, un crescendo di violenza non più latente, ma conclamata, caratterizzò i principali conflitti operai.
Con queste sommarie (e certo lacunose) premesse, l’ipotesi di lavoro che propongo è che come reazione, in parte comprensibile, a questi sviluppi di violenza delle lotte, si sia generata in molti movimenti o organizzazioni una sorta di senso di colpa, un bisogno di distinguersi con una scelta di rifiuto radicale, a priori, della violenza. Questa scelta si è rafforzata in seguito al fallimento di quella grande stagione radicale di lotte.
Personalmente non ho mai condiviso, fin da allora, questa posizione per la “nonviolenza”, e rimango fermamente convinto che il fallimento delle lotte non abbia avuto origine (o non solo, e in generale non principalmente) nell’adozione di forme violente (escludo qui la “lotta armata”).
Vedo in generale (vi saranno indubbiamente eccezioni) in questa scelta una carenza di analisi delle situazioni concrete, come ho cercato di motivare all’inizio. Non credo che sia necessario che dica che non è vero neanche il contrario, cioè che la violenza sia giustificata dalla sola violenza del potere o del sistema in cui viviamo ed operiamo. Certo assistiamo a interventi di gruppi violenti in situazioni o manifestazioni concepite e organizzate come pacifiche, che spesso prestano il destro agli organi di cosiddetta “informazione” per screditare tout court queste manifestazioni: d’altra parte sarebbe ingenuo ignorare le provocazioni preordinate, o addirittura le infiltrazioni alle quali siamo quasi sempre impreparati.
Ma secondo me è certo che i movimenti e le organizzazioni “nonviolente” non assicurino nessuna garanzia o difesa rispetto alle irruzioni di forme violente. A mio parere le difese e i controlli più efficaci e adeguati verso interferenze violente erano i servizi d’ordine organizzati dei cortei operai degli anni Settanta.
Per concludere, insisto che sulle forme dell’uso della violenza si tratta di essere in grado di valutare ogni situazione concreta che si presenta, superando ogni forma di inibizione: non l’accetto, ma non la escludo, a priori!
Non sono violento, ma non sono assolutamente “nonviolento”. Non vedo nessuna necessità di giustificarsi a priori.
(E, senza pensare male verso nessuno, siamo sicuri – io per primo – di essere proprio immuni dalla violenza o prevaricazione di genere, comportamenti maschilisti o patriarcali, o pregiudizi etnici?)
1. Dietro gli attentati della primavera-estate 1969 c’era già l’idea del colpo di stato: dietro c’erano i Colonnelli del colpo di stato in Grecia. La tensione salì con un crescendo fino alla strage di Piazza Fontana: dietro c’era la regia di Ordine Nuovo e Alleanza Nazionale, ma la regia superiore venne dall’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno ed era collegata alla Nato e pilotata dagli Usa. Vi erano legami tra Valerio Borghese, la mafia e gli Usa. Indagini successive individuarono anche la provenienza dell’esplosivo, con esplosivo Nato! Vi fu un duro scontro nella DC, in ballo c’era l’apertura al Pci: vi furono pressioni Nato e della destra internazionale. Il crescendo portò poi al rapimento di Aldo Moro del 1978.
2. Si può vedere ad esempio il recente libro di Chicco Galmozzi, Figli dell’officina. Da Lotta continua e Prima linea: le origini e la nascita (1973-1976), DeriveApprodi, Roma, 2019.
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