Per una critica della storia dell’arte

L’arte pittorica è connaturata alla mente umana, nasce da una predisposizione innata, da un portato evolutivo. Il primo graffito fu atto rivelativo, di forma che evoca in sé un’altra forma, poi divenne quotidiana gestualità magica, apotropaica ‒ sovrapposizione del proprio afflato predatorio con il corpo della preda ‒ e, in seguito, divenne simbolo, idea, manifestazione culturale: capacità di rappresentare l’immagine presso le diverse civiltà, così come risulta condizionata dalla committenza. L’arte aiuta a comprendere l’idea che il potere elabora di sé.

Nel medioevo, in Italia, l’artista doveva tradurre in scene pittoriche episodi evangelici o biblici attenendosi al dettato religioso: ridotto a scenografo, a tecnico delle luci addetto alla messa in scena della rappresentazione sacra, il didascalico artista formalizzava il discrimine tra società sacra (dei potenti) e profana (del popolo). Unica personalizzazione concessa, quella di cogliere nei volti profondità inusitate, espressioni indimenticabili, che forse gli angeli non possedevano. I corpi erano ridotti a concetti astratti, a stampelle di abiti o di anime. Sfugge a questa regola un Lorenzetti, dai cui quadri a volte può trasparire la sensualità del corpo.

Con l’Umanesimo e il Rinascimento, i pittori passano alle dipendenze di una classe narcisista che ama farsi riprodurre nella sua regalità, in abiti sontuosi, per motivi pubblicitari: papi, cardinali, principi, banchieri, magnati del commercio dei tessuti. Michelangelo dipinge la Cappella Sistina: il Dito di Dio e di Adamo-Michelangelo sono la congiunzione simbolica dell’illuminato committente – il Papa stesso ‒ con il genio Michelangelo, precario ante litteram.

I signori rinascimentali amano farsi riprodurre in scene mitologiche o come attori di scene evangeliche. Si fanno largo le architetture della Ragione; i modelli rappresentativi dell’ideale signorile prevalgono sul rispetto canonico del pensiero religioso. Ne è esempio la Flagellazione di Pier della Francesca, dove si vive quasi con distacco la flagellazione del Cristo, posta in secondo piano.

I corpi sono mostrati nella nudità, in movimento. Nudità quale opulente simbolo della società.

Con Carpaccio e Signorelli protagonisti della rappresentazione si fanno l’uomo e la folla, sebbene le storie siano sempre legate al racconto del potere. Nelle opere di Gerolamo Romanino e Giovan Gerolamo Savoldo si cominciano a scorgere persone e non più personaggi, gli uomini comuni rubano la scena ai signori e ai cardinali.

Non poteva un artigiano, dati i costi dei materiali, fare a meno dei gusti del committente. In seguito, i pittori fondano scuole, si procurano allievi, coinvolgono maestranze, divengono piccoli imprenditori: nonostante questo, raramente l’arte è svincolata dai dettami dei richiedenti; una sorta di autocensura regna tra gli artisti, la cui fantasia è imbrigliata dalle maglie della paura di perdere ordini e dall’assuefazione al “quieto vivere”: atteggiamento di cui gli storici dovrebbero tener conto se vogliono riferire fino in fondo le vicende del nostro popolo, dominato dal sentimento dell’ipocrisia, dal servilismo, incline più alla maldicenza che all’eroismo o alla difesa dei diritti e delle libertà.

Sono pochi gli artisti che ci fanno intravedere un barlume della libertà, come Giuseppe Arcimboldi. Nel Seicento, le libertà si fanno più evidenti, operano Fetti, Carracci, Caravaggio, Cagnacci, Schedoni. Tra riforme e controriforme, comunque, i poteri forti rendono l’arte ancora un fenomeno autocelebrativo. Nel Settecento, Arcadia e manierismo assoggettano l’arte a principi di restaurazione. Nell’Ottocento l’occasione per restare entro principi conservatori è offerta dal confronto-scontro con la tecnologia (la fotografia) ‒ per difendersi, l’arte ripiega su di sé e diventa arte del colore, della rappresentazione del colore nello spazio: l’immagine viene scissa nelle sue componenti, e alla fine cade nelle grinfie dell’avversaria: viene “matematizzata” (fino a consumarsi entropicamente, alla fine del Novecento, in pixel).

Con le avanguardie del Novecento nasce la reazione al conformismo.

Nei secoli, l’arte è al servizio della rappresentazione del potere: tentativo della classe dominante di spacciare la raffigurazione della realtà come proiezione della propria immagine, dei propri ideali. Tentativo di svuotare di senso polisemico la forza della rappresentazione.

L’arte è anche storia della rappresentazione del corpo. Nel periodo umanistico e prerinascimentale, da una parte si sviluppa una rappresentazione effeminata del corpo – la grazia di Perugino ‒ dall’altra il corpo dell’uomo appare trafitto dal peccato della libidine (San Sebastiano) o corrotto dalla morte (il Cristo del Mantegna). In ogni caso è il corpo in tutte le sue accezioni – come maschera dell’abito o come corpo visibile mascherato da volti, da corpi sottoposti alla Legge del peccato ‒ a essere al centro dell’attenzione. Dietro la presenza ossessiva dei corpi mai liberi si rivela un pregiudizio concettuale, che rimanda alla rappresentazione dell’idea che il potere clericale ha di sé ma rimuove, e che si traduce nella costituzione di una casta sacerdotale votata alla castità il cui totem, il Mistero divino, cela il principio fondante segreto e iniziatico dell’omosessualità. Il senso dell’arte qui risiede in una beffa paradossale, del Dio invisibile trasformato nel corpo della classe dedita alla liturgia della rimozione dell’omosessualità.

Nell’età moderna, l’economia diviene attività prevalente dell’uomo, il simbolo della sua personalità si abbina al potere economico, il potere si rispecchia nella legge del profitto e del commercio. L’invisibile, il potere, è il denaro e dunque ogni cosa può essere mercificata. Il senso dell’arte, stavolta, rappresenta la beffa dell’opera che, secondo una definizione estetico-romantica, dovrebbe sfuggire al denaro, mentre invece lo nasconde come vero Dio irrappresentabile. L’irrappresentabile è la merce divenuta moneta. Ecco che nell’ultima fase della storia della pittura domina l’astratto, raffigurazione del potere invisibile del profitto che si fa accumulo nelle gallerie “bianche” newyorchesi: il potere è in mano alla committenza che vuole opere anonime, d’arredo. Il quadro pertanto deve avere una funzione anodina che non ricordi tanto la presenza quanto piuttosto l’assenza dell’umano, ormai in mano ai meccanismi della progressiva accumulazione del denaro e del profitto. Il quadro mette in scena la rappresentazione della circolazione delle merci. I paesaggi e i corpi scompaiono e diventano macchie di colore. Il flusso della circolazione del denaro e delle merci rende tutto astratto, ovvero circolante. Non c’è un centro, ma tutto è periferia. La cancellazione del sentimento, dell’espressione: le emozioni non sono comprabili, né possono circolare. Bisognerà attendere gli ultimi performer (quelli che usano il video, oppure Vanessa Beecroft che usa i corpi umani per fare installazioni) per tornare alla fase della spettacolarizzazione del flusso delle merci, in cui il corpo e le sue emozioni divengono parte del flusso circolante del profitto. Si vendono lacrime dietro sponsorizzazioni, si scambiano emozioni e si creano fiction, reality, in cui a pagare sono le emozioni più semplici, le leggi più elementari della convivenza (il comando, le alleanze tra individui contro altri, per creare potere e emarginazione, ecc.). Insomma, lo spettacolo diventa merce: l’astratto ridiventa reale in una finzione che è quella del falso che prende il posto della realtà. Di qui la corrente iperrealista, che ha previsto anzitempo le mosse del potere e del capitale.

In realtà l’arte è sempre in qualche modo asservita. Come diceva Marx l’arte è sovrastruttura. L’arte rappresenta sempre il volto invisibile del potere: ne è la maschera, la maschera “estetica”, la “maschera di bellezza”.

Massimo Pamio

(Da Massimo Pamio, Sensibili alle forme. Che cos’è l’arte, Mimesis, Sesto San Giovanni (MI), 2019, pp. 172, € 18,00.)

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