Renato Ranaldi Axis Mundi Pistoia (particolare)
Gastone è ricchissimo. Alla scuola elementare mi si era appiccicato addosso e m’invitava sempre a casa sua: una villa con tanto di giardinieri maggiordomo e domestiche: trattato come un principino. Non sospettava che in famiglia si tirasse la cinghia: fingevo di essere ricco anch’io. Tremavo all’idea: se avesse scoperto la miseria nella quale a casa si sguazzava: mi avrebbe mollato al mio destino. Moriva dalla curiosità: perseverava con domande per saperne di più sul mio conto: rispondevo con notizie devianti: nuove stratificazioni dell’ignoto più che sprazzi di luce: incerte versioni: tutte deduttive: si intrecciavano contraddicendosi a vicenda: mi mettevo al riparo così. Continuavo a rimandare la mia confessione per l’ottimistica tendenza di arrotondare le forme all’eternità del tempo che ruzzola: il fastidio era intollerabile all’idea di mettere in piazza la mia identità a chi aveva dichiarata la sua: modello inattaccabile di granitica ricchezza. Vivevo i suoi soldi come se fossi stato io a farli. Provavo per lui un’invidia che mi straziava fino a farmi piangere quando sentivo la gente sbalordita commentare le sue ricchezze. Un giorno mi disse che la sua famiglia si sarebbe trasferita a nord: le acciaierie del padre lo richiedevano. Preparai una tempesta di lacrime: avevo occultato il mio stato di assoluta indigenza con un’abilità da fare invidia a qualsiasi terrorista itinerante. Non avrei più avuto tutte quelle attenzioni in quella reggia: che disgrazia!
Di tanto in tanto scendeva dal nord e ci vedevamo: continuavo a inventare balle relative alla mia condizione: ero ricco al pari di lui: forse anche di più. I soldi erano diventati una sorta di ordinaria e quotidiana allucinazione. Non guardarmi e non ghignare miseria coi tuoi occhi cattivi! Dividevo una stanzuccia nella periferia sud della città con una specie di barbone: un ex carabiniere: come feci con Gastone anche lui mi nascondeva la vera ragione per cui si ritrovava senza un soldo: chissà cosa aveva combinato. Al risveglio dalla finestra filtrava la nebbia del primissimo mattino: tutto vibrava: i contorni di luce fredda delle cose viravano in profili iridati: respiravo l’aria viziata della stanza che era odorosa di miele e resina. Persino una follia di tenerezza: mi ulceravo l’anima per la solitudine spietata e invulnerabile del mio compagno di stanza dall’innata malinconia: stallatiti mocciosi che gli si affacciavano dalle narici la potenziavano. Il senso divino del rinascere al giorno si manifestava nella realtà viva e autentica dei colpi di tosse di quel disgraziato. Eppure c’era di che volergliene: la colonna sonora della notte tormentosa era la massa di rumori di cui era difficile spiegarsi l’origine: suoni penetranti e mostruosi emessi dalla gola dello sventurato che mi dormiva accanto sulla brandina militare identica alla mia. Aveva perfezionato lo squittìo topesco: un sussurro agghiacciante che nascondeva la lingua segreta che rivela se stessa di notte: non ero all’altezza di intenderla.
In una di quelle sere d’inverno disperate e affamate d’amore che svolgevano una parte di sinistro rilievo nella nigredo piatta della mia vita: avvolto in un fiabesco liso cappotto ampio come una tenda di sciamano: aspettavo un autobus rarissimo che non passava mai: forse inesistente: una leggenda che circolava in città. Una mano carezza la mia spalla: dopo un attimo di animato silenzio Gastone mi abbraccia: la sensazione di un affetto eterno: con la stessa eternità trattengo ciò che amo di più in lui: i suoi soldi: il pieno dominio della sua ricchezza: quest’uomo reale quanto mai è avvolto dallo sfarzo di un’aura che lo rende agli occhi miei più ricco che mai. Recitai la commedia: inventai viaggi e soggiorni dispendiosi che non avevo fatto: la conversazione mi dava una magica e pericolosa leggerezza: temevo che da un momento all’altro sarebbe venuto alla luce il pezzente che ero. M’invitò a cena in un ristorante rinomato del quale finsi di essere un habitué. Si parlava contenti demolendo il movimento troppo rapido dei pensieri che si dissolvevano nel vuoto. Gastone non era cambiato: non parlava mai di morte: la nascondeva: lo scandalo degli scandali: felice di trovarsi al centro di un mondo vergine: cioè fatto di cose tutte comprabili: anche quelle senza nome. La guerra era un fastidio per l’economia delle sue acciaierie e se parlava di politica era solo con iroso sprezzo. Accennava ai quotidiani con un sorrisetto ironico: confessò che non andava più alle mostre d’Arte: le sue frontiere erano crollate e la sua viva carne si decomponeva sprigionando alle inaugurazioni l’odorino di marcio dell’epoca. A tavola mi dedicavo a piene ganasce al bendiddio: Gastone mi guardava fisso con mal celato sospetto: continuava a scrutarmi: mi davo un contegno: avevo l’ovatta nel cervello e un sudorino m’imperlava la faccia. Quella sera quando ci salutammo dovetti promettergli che l’avrei accompagnato l’indomani a una cena offerta dal consolato americano: che non trovassi scuse.
Passai la notte nell’ambascia: qualcuno avrebbe potuto riconoscermi mettendo in piazza la mia condizione miserevole. La sala del banchetto ospiti compresi era interamente inghiottita da uno specchio gigantesco: essere risucchiato là dentro mi dava il mal di mare. Dovetti sedermi a un tavolo in compagnia di un vecchio critico teatrale: odoroso: sembrava uscito da un bagno d’acqua di colonia. Il ginecologo tracagnotto direttore della clinica Pax et Bonum fortunatamente pareva muto: in capo la corona dell’atarassia. Un professore di diritto internazionale ghignante: imbustato in un doppiopetto grigio. Una iena ridens nella veste di generale di corpo d’armata. Un perfetto imbecille marchese che la sapeva lunga. Un senatore a vita che si era concesso ai presenti e per questo l’avremmo dovuto ringraziare. Uno stilista maître d’innaturale modernissima eleganza. Tutti d’accordo col postulato elementare: il povero è infelice il ricco è felice. Gastone era seduto di fronte a me: non mi toglieva gli occhi di dosso: il suo sguardo mi bucava tutto: covava sempre più il sospetto e col sospetto la vendetta: stava realizzando che per quaranta anni gli avevo dato a bere di essere un ricco. Una campionatura di essenze profumate da stordire arrivava dal tavolo accanto: le signore producevano un magma sonoro da pollaio. Fui attore provetto nella parte del nababbo: inventai tutto quello che si può inventare pensando di esserlo. Un trovarobe fantasioso del sogno dorato della ricchezza. Sproloquiai a proposito di sperperi di ogni natura e come avessi dilapidato un patrimonio a causa della passione per auto d’epoca e bottiglie di vini d’annata: possedevo addirittura la bottiglia di aleatico che Napoleone destinò al brindisi abortito per l’insediamento nell’Isola d’Elba. Non sfiorai specificità alcuna: avrebbe potuto mettermi a nudo. Ero ricco anch’io: a che pro dannarsi la vita a fare i soldi?: in quel momento pensai che non esserlo o esserlo davvero non facesse nessuna differenza.
Gastone non riusciva a nascondere il nervosismo: trapelava dal tremito della mano nell’accostarsi il bicchiere alla bocca: gli occhi iniettati di sangue volevano uscire dalle orbite. L’atroce sospetto di essere stato ingannato sarebbe esploso in ira furibonda: non ce l’avrebbe fatta ad aspettare la fine della cena: mi figuravo il pandemonio con piatti che volavano e le grida di quelle galline profumate. Come era giunto alla conclusione che ero un pezzente? Tutto a un tratto credetti di percepire un sorriso che stava avvolgendo lo spazio: quale fantasma emanava quella ilarità che inondava tutto? Prima che la vendetta di Gastone si manifestasse avevo raggiunto l’altro versante dal quale non potevo evadere: ero indegno di calcare più a lungo i sentieri dorati di quelle mummie: non hanno la sventura divina di essere dotati del senso del ridicolo. Un pensiero incontrollabile: anteriore al funzionamento del cervello: proclamare la verità che mi avrebbe bandito per sempre dal sogno della ricchezza e dalla sua febbre: ma non avevo le parole per formularla. Dovevo separarmi dall’impostura: avrei portato con me l’orgoglio e il riverbero della sublime invenzione che l’aveva data a bere per una quarantina d’anni a Gastone: tutto l’inventario di bugie: un capolavoro: già morto e sepolto. Ho vissuto tante cose dentro la menzogna di una vita che non è stata: non le avrei pensate contemplando la realtà: la miseria nella quale dovrò rientrare: è la mia casa. Ora è finita: rimpiangerò per sempre la maestria nel mentire di cui ho dato prova: ha fatto di me un ricco.
Commenta per primo