All’aeroporto, dopo lo sbarco, espletate le formalità doganali, vado velocemente alla toilette. In una mano ho la valigetta ventiquattrore, sul dorso uno zainetto, a tracolla il computer e nell’altra mano un piccolo ombrello portatile. Scarto gli orinatoi a parete ed entro in un box. Neanche un gancio dove appendere i bagagli. Disperato, reggo con il mento il piccolo ombrello portatile e passo nella sinistra la ventiquattrore. Mi affanno con la destra sulla patta, cercando di estrarre senza danni l’oggetto. Finalmente. Stavo per farmela addosso. Con grande cautela rimetto ogni cosa al suo posto e chiudo la patta. Neanche una goccia di orina, lo giuro, mi ha imbrattato le mani. Esco dal box. Mi avvicino ai lavandini. Esito. No, ci rinuncio. Troppo complicato. Oltretutto per quanto riguarda gli inevitabili contatti con la parte in questione, mi sono fatto la doccia tre ore fa. Esco dalla toilette. Su tutti i display campeggia il mio volto, con sotto la scritta This man has not washed his hands after urinating. Non sono in Europa.
Sto guidando da quattro ore, rispettando scrupolosamente i limiti di velocità. In un rettilineo che non sembra aver fine c’è un furgoncino che sta andando impercettibilmente più piano di me. Io sto procedendo esattamente a 90 miglia orarie. Direi che lui stia procedendo a 89,9 miglia orarie. L’ho avvistato circa mezzora fa, ma adesso gli sono a solo 20 metri dal paraurti posteriore. O rallento o lo supero. Decido per il secondo corno della dicotomia, talché accelero impercettibilmente (nessuno viene in senso contrario e la striscia che separa le due corsie è tratteggiata). Diciamo che adesso sto andando, più o meno, a 90,1 miglia orarie. Mi sono avvicinato appena a 10 metri dal paraurti posteriore del furgoncino che una macchina della polizia a sirene spiegate si materializza dal nulla e un altoparlante urla qualcosa. Io non capisco niente, ma per prudenza accosto e mi fermo. Un poliziotto con occhiali scuri e la mano sulla fondina della pistola si accosta e mi dice qualcosa. Io sorrido e balbetto che non capisco. Allora lui urla più forte e mi fa cenno di uscire. Io esco. Lui mi sbatte sul cofano, mi allarga le gambe, mi perquisisce sommariamente e mi punta la pistola alla testa. Dopo avere telefonato in centrale mi lascia andare, bontà sua, senza farmi pagare la multa. Non sono in Europa.
Ho commesso un crimine molto grave. Tutti mi leggono meticolosamente i miei diritti. Ma qualche volta non mi leggono un bel nulla. Quando mi fanno salire in un’auto hanno gran cura che non batta la testa sugli spigoli. Ma altre volte se ne fottono proprio degli spigoli o di qualunque altra asperità. Mi danno una tuta arancione e fuori dalla mia cella mi incatenano mani e piedi. Ma altre volte mi lasciano addosso i miei stracci e dalla mia cella, se faccio a tempo ad averne una, non esco mai. Poi posso aspettare anche vent’anni, oppure pochi minuti, ma la fine è sempre la stessa: mi impiccano, mi fucilano, mi fulminano, mi avvelenano, mi decapitano, mi lapidano. Non sono in Europa.
Partecipo a una manifestazione di protesta e mi scontro con i poliziotti. Non so come sia capitato e il motivo è irrilevante. Forse ci sono stati dei provocatori. Forse qualcuno ha sbagliato. Fatto sta che mi ritrovo al buio, nudo, in una cella a prendere un sacco di botte. Chiedo chi. Chiedo perché. Chiedo un avvocato. Quelli ridono e mi prendono a calci. A volte riesco a cavarmela con qualche contusione. A volte mi ammazzano. A volte mi ammazzo. Non sono in Europa. Ma forse sì.
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