COME SI SOPPORTA LA STORIA? di Alfonso M. Iacono

Il 1° novembre 1755 Lisbona è devastata da un terremoto. Morti, dispersi, senza tetto. Alla notizia, il sessantenne Voltaire ha una crisi filosofica e morale. Comincia a stendere il Poema sul disastro di Lisbona. Successivamente scriverà e pubblicherà Candido, lo straordinario, ironico racconto dove vengono corrosivamente messe in ridicolo le idee sulla provvidenza divina e sull’intrinseca bontà del mondo (il migliore dei mondi possibili). Il libro di Bronislaw Baczko, Giobbe amico mio. Promesse di felicità e fatalità del male (Manifestolibri, Roma, 2000) prende avvio da Voltaire e dal terremoto di Lisbona. Al centro del suo discorso vi è il doloroso scarto, così avvertito nell’illuminismo, tra l’inevitabilità del male e le promesse di felicità. È infatti dentro il quadro concettuale offerto dalla modernità che il pensiero contemporaneo si è dovuto porre, con ancora maggiore inquietudine, la domanda: come gli uomini sopportano la storia? Se l’è dovuta porre, all’indomani della fine della seconda guerra mondiale, Mircea Eliade, riflettendo sul tempo lineare e irreversibile e sul tempo ciclico e ripetitivo: “Come può essere sopportato il «terrore della storia» nella prospettiva dello storicismo? La giustificazione di un avvenimento storico, per il semplice fatto che è avvenimento storico, cioè, in altri termini, per il semplice fatto che si è prodotto in quel modo, faticherà molto a liberare l’umanità dal terrore che ispira. Precisando però che non si tratta del problema del male che, sotto qualsiasi angolo lo si affronti, resta un problema filosofico e religioso; si tratta invece del problema della storia come tale, del «male» che è legato al suo comportamento nei confronti degli altri. Si vorrebbe sapere, per esempio, come possono essere sopportati e giustificati i dolori e la scomparsa di tanti popoli che soffrono e scompaiono per il semplice motivo che si trovano sul cammino della storia e perché sono vicini a imperi in stato di permanente espansione” (M. Eliade, Il mito dell’eterno ritorno, Borla, Roma 1968, pp. 190-191).

E Hans Jonas ha, a sua volta, sottolineato il fatto che, dopo Auschwitz, il concetto di onnipotenza di Dio deve essere abbandonato. Dopo Auschwitz non è dall’onnipotenza di Dio che ci si può aspettare la possibilità della sopportazione della storia (H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, Il Melangolo, Genova 1989. Ma cfr. anche S. Quinzio, La sconfitta di Dio, Adelphi, Milano 1992).

“Non vi è più posto, scrive Jonas, per fedeltà o infedeltà, fede o agnosticismo, colpa e pena, o per termini come testimonianza, prova, e speranza di salvezza e neppure per forza e debolezza, eroismo o viltà, resistenza o rassegnazione. Di tutto ciò non sapeva nulla Auschwitz che divorò bambini che non possedevano ancora l’uso della parola e ai quali questa opportunità non fu neppure concessa. Chi vi morì non fu assassinato per la fede che professava e neppure a causa di essa o di una qualche convinzione personale. Coloro che vi morirono, furono innanzitutto privati della loro umanità in uno stato di estrema umiliazione e indigenza; nessun barlume di dignità umana fu lasciato a chi era destinato alla soluzione finale – nulla di tutto ciò era riconoscibile negli scheletrici fantasmi sopravvissuti nei Lager liberati” (H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, Il Melangolo, Genova 1993, pp. 21-22). Questa immane tragedia ha delle conseguenze sull’immagine di Dio. Dopo Auschwitz, Dio non può essere ugualmente comprensibile, buono, onnipotente. Ed è l’onnipotenza, secondo Jonas, che dall’immagine di Dio scompare: “Dopo Auschwitz possiamo e dobbiamo affermare con estrema decisione che una Divinità onnipotente o è priva di bontà o è totalmente incomprensibile (nel governo del mondo in cui noi unicamente siamo in condizione di comprenderla). Ma se Dio può essere compreso solo in un certo modo e in un certo grado, allora la sua bontà (cui non possiamo rinunciare) non deve escludere l’esistenza del male; e il male c’è solo in quanto Dio non è onnipotente” (H. Jonas, ibidem, p. 34). Di fronte ad Auschwitz Dio restò muto: “non intervenne, non perché non lo volle, ma perché non fu in condizione di farlo” (H. Jonas, ibidem, p. 35).

Ma non è solo il Dio degli ebrei a perdere l’onnipotenza. Anche il Dio dei cristiani non ha mantenuto le sue promesse. Sergio Quinzio ha parlato di “sconfitta di Dio” in un’epoca come quella attuale dove “un domani che sia davvero pensabile come tale (come uno spazio futuro in cui possa accadere ancora qualcosa di significativo), e non sia soltanto l’indefinito prolungamento del presente (la condizione che è stata recentemente definita di «fine della storia»), sfugge totalmente all’attuale orizzonte culturale, che deve ignorare finanche la domanda. Se negasse la possibilità di un futuro diverso, manifesterebbe infatti la sua nascosta pretesa assolutistica; se l’affermasse, svelerebbe chiaramente la propria insignificanza” (S. Quinzio, op. cit, p. 79). La tesi di Quinzio è che la storia biblica è una storia di fallimenti e che la stessa incarnazione rappresenta per il Dio cristiano una perdita della sua deità, un suo “abbassamento”. Il farsi uomo di Dio è un rischio. Se il Dio dei cristiani volle farsi uomo, fu perché decise di mettere a rischio la sua stessa deità, che ora poteva essere perduta “Quella di Dio non è una scelta fatta in base alla previsione dei suoi effetti, perché allora ogni conseguenza, ogni esito sarebbe voluto, sarebbe dunque un’affermazione della sua volontà, di se stesso, di ciò che è nei confronti di ciò che non è, della forza nei confronti della debolezza; è invece uno scegliere senza prefigurarsi le conseguenze della scelta, è la libera assunzione di un rischio totale” (S. Quinzio, op. cit, p. 72-73).

Dalle considerazioni sia di Hans Jonas, sia di Sergio Quinzio emerge l’idea che l’assenza di futuro in seno alla società occidentale contemporanea dipende, nella sostanza, dalla fine di un nesso verità/potere, sulle cui spalle ha poggiato per secoli il senso occidentale del futuro. La tradizione apocalittica ebraico-cristiana e la tradizione scientistica moderna, la profezia e la previsione, vengono accomunate dal fatto che il futuro (rivelato o previsto) gioca il ruolo epistemologico di rassicurazione autorevole sul senso del presente. Il potere di prevedere il futuro sembra essere la verità della storia, là dove invece è la rassicurazione autorevole a esprimere la verità di questo potere.

Quando, all’idea apocalittica cristiana della storia si sovrappose la filosofia moderna della storia e del progresso, il futuro prognosticato o previsto dette una nuova modalità di organizzare il passato attraverso un rapporto con il futuro. Il rifiuto di un futuro rivelato che avrebbe dovuto realizzarsi nel tempo, e la cui realizzazione veniva continuamente differita, la nuova dimensione di un futuro aperto, l’idea che la storia e la civiltà dipendessero dal saper fare umano, l’esclusione di ogni finalità nella natura, preparavano la domanda: come si sopporta la storia e il senso della sua irreversibilità? Come si può accettare la sua contingenza?

Oggi, l’idea che il futuro rivelato, prognosticato o previsto possa dotare di senso una storia costruita sul tempo lineare, rendendola così sopportabile, sembra perdere di significato. Il dominio dell’Occidente sul resto del mondo non sembra basarsi più sul raggiungimento di un futuro diverso e migliore del presente, poiché tale raggiungimento o si è rivelato illusorio o si è offerto a costi troppo alti. Esso sembra basarsi, più disincantatamente, sulla coincidenza delle condizioni future con le condizioni presenti e sulla trasformazione del tempo progressivo in tempo stazionario, come modo di perpetuare la propria situazione di sicurezza, di privilegio e di dominio. Un presente che si conserva all’infinito. E un infinito che possiede insopportabilmente la strana e paradossale caratteristica dell’immobilità.

 

 

 

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